Comincia oggi al Ministero per lo sviluppo economico, la partita decisiva, probabilmente finale per la siderurgia italiana. La trattativa che dovrebbe accompagnare l’Ilva nelle capienti braccia di Arcelor Mittal rese ancora più ampie nell’abbraccio dal socio italiano, Marcegaglia, coinvolge numerose città ma il nodo più intricato (politicamente, socialmente, economicamente e anche moralmente) è Taranto.

Lo è per tre motivi. Il primo: è il punto di crisi più acuto, dove si concentrano 3.200 esuberi in un’area in cui, per giunta, l’offerta di lavoro scarseggia. Il secondo: è la città che più di altre ha sofferto da un punto di vista ambientale e sanitario le scelte prima dello Stato e poi di Riva, il totale disinteresse, cioè, manifestato da tutti e due i protagonisti nei confronti della salute tanto di chi all’interno dello stabilimento lavorava, quanto di chi all’esterno ci viveva: difficile trovare nella città un nucleo familiare che non abbia dovuto fare i conti  con la durezza e la sofferenza di una terapia anti-tumorale. Terzo: gli impianti pugliesi sono quelli che interessano maggiormente gli acquirenti perché lì si può produrre tutto e non lo diciamo noi ma lo specifica il primo documento presentato proprio dalla cordata al momento vincente ma sulla quale si è posato lo sguardo sospettoso delle autorità antitrust europee.

Le premesse non confortano gli ottimismi, anche quelli manifestati in maniera avventurosa da alcuni esponenti del governo e che l’arcivescovo di Taranto, Filippo Santoro ha ricordato con encomiabile puntualità: gli esuberi indicati dal piano sono decisamente lontani dalle rassicurazioni fornite dal vice-ministro Teresa Bellanova che garantiva che alla fine del negoziato nessuno avrebbe perso il posto di lavoro, e dal ministro per la coesione territoriale, Claudio De Vincenti, che a sua volta aveva affermato che non ci sarebbero stati licenziamenti. Delle due l’una: o hanno mentito loro e sarebbe decisamente grave o hanno mentito i candidati-proprietari e una cosa del genere sarebbe sufficiente per non ritenerli sufficientemente affidabili.

In questa partita i posti di lavoro sono la posta in gioco; i due soggetti che si confrontano sono da un lato la ‘cordata’ che aspira a conquistare la più importante azienda siderurgica italiana e dall’altro lo Stato.

Lo Stato che al tavolo si materializza attraverso il governo in questa vicenda ha storiche responsabilità. Cominciano nel momento in cui sceglie il luogo in cui far sorgere lo stabilimento; continua tenendo sotto silenzio le ricadute socio-sanitarie della produzione evitando di avviare investimenti per attenuarle; scompare letteralmente nel momento della cosiddetta vendita ai Riva guardandosi bene dal porre condizioni e richiedere garanzie: i risultati sono sotto gli occhi di tutti ma il prezzo lo stanno pagando solo i tarantini.

Presidi di lavoratori e sindacati sono in corso oggi davanti alle portinerie A, D, Tubifici e imprese dello stabilimento Ilva di Taranto. Le iniziative avvengono in concomitanza con lo sciopero di 24 ore, cominciato alle ore 7, indetto da Fim, Fiom, Uilm e Usb nel giorno del vertice al ministero dello Sviluppo economico in cui sarà discusso il piano dell’acquirente Am Investco (controllata dal gruppo franco-indiano ArcelorMittal), che ha confermato i 4 mila esuberi programmati (3.300 solo nel capoluogo ionico).

E’ previsto che gli operai convergano verso la direzione per un’assemblea. Il governo ha garantito che non lascerà nessuno senza tutele, ma per i sindacati si parte da una base di confronto inaccettabile. A preoccupare sono soprattutto le condizioni che dovranno essere accettate dai lavoratori che passeranno alle dipendenze di Am Investco. Innanzitutto, fanno rilevare Fim, Fiom, Uilm e Usb, perderanno le garanzia dell’art.18 perché saranno riassunti con il contratto a tutele crescenti previsto dal Jobs Act. Inoltre, così come evidenziato nel piano, non ci sarà alcuna continuità rispetto al rapporto di lavoro precedente neanche in relazione al trattamento economico e all’anzianità. Ora toccherà ai sindacati trattare per riuscire a mantenere i livelli retributivi.

È pesantissima la responsabilità che incombe su Paolo Gentiloni, capo del governo, e sui ministri direttamente interessati alla vicenda, Carlo Calenda, titolare dello sviluppo economico,  Claudio De Vincenti, coesione territoriale e Giuliano Poletti, ministro del lavoro.  Per lo Stato questa è l’ultima chiamata.