Tutti sono concordi nel voler combattere lo Stato Islamico e il jihadismo nella sua forma terroristica, come in quella militare. Nei fatti reali, però, nessuno sembra davvero disposto a combattere questa guerra. Non è credibile che Washington abbia potuto rovesciare in sole sei settimane il regime talebano, e nello stesso tempo abbia cacciato Saddam Hussein da Baghdad, e oggi, con potenze europee , ripeta che ci vorranno anni per rovesciare il Califfato. Le ambiguità della guerra contro l’Isis sono legate al fatto che ognuno dei principali protagonisti persegue interessi nazionali molto diversi dalla lotta ad Abu Bakr al-Baghdadi. Gli Usa possono tergiversare contro l’Isis traendo persino vantaggio dalla destabilizzazione del Medio Oriente. Per sostenere il regime laico di Bashar Assad i russi bersagliano con i cacciabombardieri tutte le milizie jihadiste. Se gli europei non sembrano avere la capacità politica e militare per elaborare una propria strategia indipendente da Washington, lo stesso non si può certo dire per turchi e arabi. Dopo aver acceso la miccia della rivolta contro Bashar Assad nel 2012, Ankara è intervenuta nel conflitto solo nel luglio scorso, ufficialmente per colpire l’Isis ma in realtà ha bersagliato con jet e artiglieria soprattutto i curdi, che sono le uniche forze combattenti che finora hanno tenuto testa alle milizie jihadiste respingendole a Kobane e ad Hasaka. Per ottenere un ruolo chiave nel determinare il futuro della Siria, i turchi non hanno esitato a sostenere i gruppi jihadistì più efferati come lo Stato Islamico e i qaedisti del Fronte al-Nusra, facendo transitare dalla frontiera armi e munizioni provenienti da Riad e Doha e curandone i feriti negli ospedali turchi. Ankara inoltre non esita a utilizzare anche l’arma degli immigrati illegali per incassare vantaggi come ha dimostrato la richiesta di Erdogan ad Angela Merkel di 3 miliardi di euro per accogliere in territorio turco i profughi siriani. La rotta libica, che interessa direttamente l’Italia, vede i migranti salpare dalla Tripolitania occidentale, regione controllata dal governo islamista di Tripoli e sostenuto solo da Qatar e Turchia, che minaccia di accentuare i flussi se non otterrà una legittimazione dalla Ue. Le ambiguità maggiori riguardano però le monarchie del Golfo che solo nominalmente prendono parte alle operazioni della Coalizione sulla Siria e la cui presenza non è gradita dall’Iraq che infatti vuole solo forze aeree occidentali nel suo spazio aereo. Il governo scita di Baghdad accusa i Paesi del Gulf Cooperation Council, una sorta di Nato araba del Golfo Persico, guidata dai sauditi, di sostenere con armi e denaro i terroristi dello Stato Islamico allo scopo di alimentare la rivolta sunnita ostacolando così l’egemonia iraniana in Iraq. Un’accusa più che giustificata se si considerano le raccolte di fondi tenutesi in Qatar, Kuwait e negli ambienti wahabiti tese a sostenere il Califfato nel nome della lotta a ‘persiani sciti e infedeli’. Nessun soldato americano metterà piede in Iraq per combattere l’Isis diceva, nel 17 settembre del 2014, il presidente americano che prometteva di non voler inviare militari sul campo per combattere i terroristi. L’unica strategia messa in atto da allora è stata quella di bombardare con i droni le basi militari e i mezzi del Califfato. Tirando le somme la verità è che lo Stato Islamico continua a conquistare territori, ma soprattutto fa affari vendendo petrolio ed opere d’arti e non di rado anche esseri umani nel mercato sommerso e svuota banche lungo il cammino di conquista. I numeri parlano chiaro, l’Isis si arricchisce ogni giorno di più, ma non solo in termini finanziari. Nello Stato Islamico, per ogni jihadista che muore in combattimento ne arrivano altri dieci. Di contro a combattere sul campo ci sono soltanto curdi e sciiti, oltre che i governativi siriani, e di fatti sono gli unici che possono vantare alcune vittorie contro i terroristi. Obama annunciava il coinvolgimento di più di venti paesi nella guerra contro il terrorismo in Siria e in Iraq. La ‘coalizione internazionale’ molto voluta dal Presidente americano ha però fino ad ora soltanto prodotto perplessità nelle menti di chi si chiede se paesi come il Qatar, la Turchia e l’Arabia Saudita fossero da annoverare tra gli amici o tra i nemici. Sono diversi infatti gli indizi, in alcuni casi prove, che alcuni paesi alleati stiano in realtà facendo il doppio gioco. La Turchia ad esempio è stata beccata più volte a lasciare passare i terroristi nei propri territori a nord di Kobane. Infatti i jihadisti in numerosi video pubblicati su internet vengono ripresi a sparare dall’altra parte della linea di confine. Poi c’è L’Arabia Saudita, ovvero, uno dei paesi a fornire più uomini allo Stato Islamico, considerato da Obama un paese strategico. L’ondata di uomini e donne in partenza da Riyadh non sembra arrestarsi e nessuno da quelle parti intende spiegarci come mai. Infine il Qatar, uno dei paesi ad avere maggiormente finanziato l’Isis sul nascere. L’idea del piccolissimo emirato era probabilmente quella di dare vita ad un’organizzazione islamica in funzione anti Assad in Siria. Ciò che però sicuramente sappiamo è che il Qatar fino ad oggi tramite un sistema di fondazioni ed Ong, ha fornito decine di milioni di dollari allo Stato Islamico. ‘Invieremo in Iraq altri 450 uomini per addestrare i soldati iracheni’, diceva Obama annunciando l’invio di ulteriori uomini per aiutare le truppe irachene a fronteggiare l’Isis. Anche questa strategia sembra però avere prodotto fino ad oggi soltanto fughe, come quelle dei militari iracheni davanti all’arrivo imminente dei terroristi. E’ successo a Mosul, a Ramadi, a sud di Kirkuk e a Falluja. Migliaia di militari hanno letteralmente buttato via le divise e lasciato armi e mezzi ai terroristi in arrivo e per di più di buona fattura, se si considera che quasi tutti gli armamenti sono marchiati Usa. A tutt’oggi non sappiamo se ci sarà un cambio di marcia nella lotta al terrorismo islamico. Nel frattempo nessuno sembra avere davvero voglia di fermare lo Stato Islamico.
Cocis