Dopo 24 ore di trattative, i ‘Ventotto’ hanno finalmente trovato un accordo sulla futura relazione della Gran Bretagna con l’Unione europea. L’intesa, il cui impatto politico è ancora tutto da valutare, è giunta sulla base di un testo lungamente negoziato tra i diplomatici e preparato in ultima analisi dal presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, alla ricerca di un compromesso tra le diverse esigenze nazionali. David Cameron, raggiunto l’accordo, può cantare vittoria: ‘Ora potrò raccomandare di votare sì al referendum di giugno, di cui annuncerò ufficialmente la data solo dopo il consiglio dei ministri’. Dice che lo farà con tutto il cuore e l’impegno, cercando di convincere gli elettori che è meglio riformare l’Unione europea da dentro e restare nel mercato interno, piuttosto che uscirne e rinegoziare 27 accordi bilaterali. Il testo dell’accordo stabilisce che l’Unione Europea ha più di una moneta riconoscendo, quindi, che l’Unione non ha come punto di arrivo l’adozione da parte di tutti i membri dell’euro. Più in generale il Regno Unito non sarà obbligato a convergere nell’Unione, che diverrà sempre più stretta e che dovrebbe essere il traguardo finale dell’Unione Europea secondo il trattato di Roma del 1957. I paesi che non adotteranno l’euro non potranno impedire che ci sia un ulteriore integrazione dell’Unione, ma i contribuenti di tali paesi non verranno coinvolti in ulteriori salvataggi. Londra continuerà a partecipare alle discussioni relative alla regolazione finanziaria, suo business principale, in modo da sostenere l’uniformità del mercato interno di cui Londra continuerà a far parte. Il mercato interno dovrà essere sempre più integrato e rafforzato con regole sempre migliori. I paesi che non partecipano all’euro potranno richiedere al Consiglio di intervenire su materie relative alla sola Eurozona, nel caso in cui ritengano che tali nuove regole possano creare problemi alla propria stabilità finanziaria. L’inquilino di Downing Street rivendica che grazie alla sua battaglia la Gran Bretagna avrà uno statuto speciale, che non farà mai parte del superstato europeo, né mai di un esercito europeo. E sostiene che il Regno Unito ha costretto l’Europa a tagliare la burocrazia, anche se questo è esattamente uno dei punti del programma di Jean Claude Juncker. E assicura che Londra ha riconquistato il controllo sulle sue frontiere, riuscendo a bloccare gli abusi dei lavoratori europei che sfruttano il ‘nostro sistema di welfare’. Quello che ottiene è di poter limitare l’accesso ai benefici, spalmato su quattro anni, per 7 anni fino al 2024. Concettualmente è uno strappo per l’Europa, che non ha mai ammesso discriminazioni. Aveva però chiesto uno ‘freno d’emergenza’ di 13 anni. E a chi gli fa notare che ha avuto poco più della metà, replica che nessuno pensava che sarebbe mai riuscito ad ottenere alcun limite. Cameron riesce a far passare anche l’indicizzazione degli assegni per i figli rimasti in patria dei lavoratori europei emigrati nel Regno Unito, che saranno pagati in base al reddito medio del paese di residenza. Deve ingoiare che nessuno dei benefici sarà retroattivo, e che l’indicizzazione piena scatterà solo dal 2020. In compenso il premier britannico martella sul recupero di sovranità, sul fatto che in una futura riscrittura del Trattato sarà esplicitamente scritto che il concetto di ‘unione sempre più stretta’, su cui si fonda la costruzione europea sin dai Trattati di Roma del 1957, non si applicherà più alla Gran Bretagna. Nel testo finale dell’accordo resta un grado di autonomia per banche, assicurazioni e istituzioni finanziarie della City dal ‘single rulebook’ europeo. Era il punto più delicato del negoziato, quello su cui Francois Hollande ha fatto da testa di ariete, col sostegno di Germania, Italia, Lussemburgo e Belgio. L’autonomia alla fine è ridimensionata dal ripetuto richiamo all’obbligo di rispettare condizioni di parità nel mercato interno. E la City non sarà esente da dover rispettare anche eventualmente aumentati poteri delle authority europee di controllo, come Eba e Esma. L’accordo raggiunto dice, inoltre, che sulla base di considerazioni oggettive indipendenti dalla nazionalità delle persone coinvolte e proporzionate al legittimo scopo perseguito, possono essere imposte condizioni in relazione ad alcuni benefit, per assicurare che ci sia un reale ed effettivo grado di connessione tra la persona e il mercato del lavoro dello Stato membro. Ovvero, gli Stati membri hanno la possibilità di rifiutare di garantire benefici sociali alle persone che esercitano il loro diritto alla libertà di movimento unicamente per ottenere l’assistenza sociale dello Stato membro, malgrado non abbiano risorse sufficienti per rivendicare il diritto di residenza. Viene consentita l’introduzione di un meccanismo di allerta e salvaguardia che risponde a situazioni di afflusso di lavoratori di magnitudo eccezionale per un periodo esteso di tempo, ivi inclusi i risultati di politiche passate che hanno fatto seguito agli allargamenti dell’Ue. Lo Stato che intenda avvalersene deve notificare alla Commissione e al Consiglio l’esistenza di tale situazione eccezionale, che danneggi aspetti essenziali del suo sistema di sicurezza sociale. Su proposta della Commissione, il Consiglio può autorizzare lo Stato membro a restringere l’accesso ai benefici non contributivi per i lavoratori per la misura necessaria. Il Consiglio, in tal caso, autorizza tale limitazione per un periodo di 4 anni a partire dalla data di inizio del lavoro. ‘Credo sia un buon compromesso, il bicchiere è più pieno che vuoto, direi tre quarti pieno’, commenta Matteo Renzi, aggiungendo di non considerarlo un pastrocchio. Per il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, è stato inviato il segnale che siamo disposti a sacrificare parte dei nostri interessi per il bene comune. Per la presidente lituana, Dalia Grybauskaite, è stata tutta una sceneggiata.
E l’accordo, che si autodistruggerà se al referendum vincerà il ‘no’, da solo non basta a garantire la vittoria nel referendum-trappola ideato da Cameron per vincere le elezioni di maggio scorso battendo Labour ed euroscettici dell’Ukip. Proprio Nigel Farage, leader dell’Ukip, boccia l’accordo come patetico: ‘Andiamo via dall’Ue, è la nostra occasione d’oro’, twitta in nottata. E anche i Tory sono pronti a dividersi e non tutti seguiranno Cameron. Il ministro della Giustizia Michael Gove, un pezzo da novanta nel governo, farà campagna per il ‘no’. Un brutto colpo che Cameron mostra di assorbire con disinvoltura: ‘Lo conosco da una vita. Mi dispiace, ma non mi sorprende’. Da adesso per il premier parte un’altra sfida, quella che porta al referendum. E la strada si annuncia in salita perché i sondaggi danno i fautori della Brexit in vantaggio di due punti.
Cocis