Bersani e la scissione del Pd

Non minaccio nulla e non garantisco nulla, ha detto Pier Luigi Bersani rispondendo alla Camera a chi lo interpellava su una possibile scissione dal Pd. A Matteo Renzi,  spiega l’ex segretario, porrò delle questioni politiche e sentirò la risposta. Poi la puntualizzazione: ‘C’è un piccolo oggetto che si chiama Italia e io solleverò delle questioni su questo oggetto qui. Poi ascolterò la risposta e mi regolerò’. Bersani è anche tornato a chiedere di celebrare il congresso prima delle elezioni, che dunque non dovrebbero tenersi in tempi brevi: ‘Penso  che in tutti i partiti del mondo prima di andare alle elezioni che ci saranno, nel 2018, quando saranno, si fa il punto sul programma e la leadership. Ovunque. Quindi qui c’è una questione democratica, non solo per l’Italia anche per il Pd sennò la cosa diventerebbe veramente seria perché saremmo l’inedito’. Intanto gran parte dei segretari regionali lanciano un monito-appello per l’unità del partito: ‘Siamo veramente rattristati per le posizioni che in queste ore alcuni autorevoli esponenti del nostro partito stanno rivolgendo contro il Pd e i suoi organi democraticamente eletti. In una fase politica e sociale così delicata, evocare la scissione è esattamente il contrario di ciò che il nostro popolo ci chiede e si aspetta. Minacciare le carte bollate in presenza di una assemblea nazionale che ha raggiunto, poco più di un mese fa, l’unanimità proprio sulla necessità di concentrarsi sul Paese anziché sulla mera conta interna, è irresponsabile. Invitare alla divisione significa compiere ancora una volta il più clamoroso degli errori’,  scrivono i segretari regionali del Pd di Valle d’Aosta, Piemonte, Lombardia, Liguria (Commissario), Provincia Autonoma di Trento, Provincia Autonoma di Bolzano, Friuli Venezia-Giulia, Veneto (Garante), Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, Marche, Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Calabria, Sardegna (Garante), Sicilia. La situazione politica, proseguono i segretari del Pd di 18 regioni, dovrebbe farci riflettere e concentrare tutti sul futuro che vogliamo offrire al nostro Paese, sulle controproducenti e discriminatorie politiche di Trump, sul rilancio del ruolo dell’Europa, sulla lotta all’austerity e sulle nuova modalità di inclusione sociale, sulla lotta all’evasione fiscale e su come creare nuove opportunità di lavoro. Invece il Pd finisce sui giornali per l’ansia di visibilità di qualcuno anziché per ciò che possiamo e vogliamo fare per l’Italia. La base del Pd, la nostra gente, non può accettare questa campagna fatta da chi non rispetta le regole interne, né lo Statuto. Il rispetto delle regole interne è la premessa per la corretta vita democratica di una comunità. Evitiamo gli errori del passato. Unità e gioco di squadra devono essere il modo migliore per essere pronti alle elezioni ed è paradossale che coloro che brindavano per il No al referendum come un evento epocale, oggi siano i primi a dire che tutto deve rimanere così fino al 2018. Nei territori ricerchiamo ogni giorno le ragioni dell’unità e in alcuni casi abbiamo pagato a caro prezzo le divisioni. Non facciamo lo stesso a livello nazionale, proprio nel momento in cui i populismi non aspettano altro che approfittare delle nostre debolezze’.  Renzi, per parte sua, non cambia road map: ‘Le elezioni entro l’estate, con il congresso da celebrare nei tempi stabiliti, quindi a fine 2017’, restano l’obiettivo del segretario Pd, tornato l’intera giornata al lavoro al Nazareno. Intanto la conferenza dei capigruppo della Camera ha stabilito che il 27 febbraio la legge elettorale sarà all’esame dell’aula di Montecitorio.  Renzi, mentre tutti pensano al congresso,   con una mossa spregiudicata  ha fatto quella che un grande vecchio della sinistra, Vittorio Foa, definì ‘la mossa del cavallo’, ovvero,  muovere in avanti, sulla scacchiera, per ‘mangiare’ a destra. Accordarsi con i suoi nemici di sempre, Grillo, Salvini, Meloni,  per ottenere le urne al massimo entro il mese di giugno. Complice un articolo del quirinalista del Corsera che intimava il prevedibile alt del Quirinale alla sua fretta di correre alle urne senza armonizzare le due, diverse, leggi elettorali di Camera e Senato,  e si è chiuso coi suoi più stretti colonnelli al Nazareno per dare una  ‘luce verde’.  Sta  per nascere, infatti, il ‘Legalicum’, come lo chiamano gli stellati. Ovvero, come dicono i renziani, l’estensione al Senato delle norme della Camera: un Italicum senza ballottaggio, fatto di liste e un’unica soglia di sbarramento per tutti.  Il dibattito per scrivere una nuova legge elettorale inizierà, nell’Aula della Camera, come dicevamo, il 27 febbraio. La data è ancora controversa perchè manca ancora l’esame della commissione Affari costituzionali. E’ stato stabilito anche il contingentamento dei tempi di discussione in Aula. La svolta è arrivata a tarda sera con voto a maggioranza (Pd-M5S-Lega a favore; FI, Sel-SI e Misto contrari) alla fine della conferenza dei capigruppo di Montecitorio. Per Arturo Scotto (Sel) ‘è nato l’asse dell’avventura’, Brunetta  parla di ‘comportamento inaccettabile del Pd’, solo Lupi (Ncd) si limita a parlare di ‘forzature’. La verità è che sta per nascere una legge che colpirà al cuore soprattutto FI, che sarà costretta presentare liste uniche con Lega e Fdi. Tra i ‘piccoli’ aggiustamenti, oltre alla doppia preferenza di genere, via il sistema del sorteggio, dimensione diversa dei collegi senatoriali,  non si sa se sono previsti due punti cruciali per la sopravvivenza di molti: la possibilità di creare liste e/o coalizioni e le soglie di sbarramento. Il sistema oggi in vigore per il Senato prevede la possibilità di dare vita a coalizioni, ma l’asse Pd-Lega-M5s punta a consentire solo la presentazione di listoni come accade alla Camera. Le soglie di sbarramento al Senato sono assai diverse (20%, 8%, 4%) e ben più alte dell’unica della Camera (3%): potrebbe essercene una sola, la più bassa. Si giocherà intorno a  tre poli la prossima campagna elettorale e tutti gli altri verranno tagliati fuori, anche grazie al Neo-Legalicum…

Roberto Cristiano

 

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