Addio voucher, arriva il lavoro a chiamata

Con l’abolizione dei voucher, a partire dall’1 gennaio 2018, la possibilità di svolgere lavori occasionali resta affidata al contratto a chiamata, noto anche con il nome di contratto a intermittenza o job on call, introdotto nel 2003 e in seguito modificato con il Jobs Act,.

 Come disciplinato dall’articolo 13 del decreto legislativo 81/2015, per contratto di lavoro intermittente si definisce il contratto, anche a tempo determinato, con il quale il lavoratore si mette a disposizione di un datore di lavoro che può utilizzarne la prestazione lavorativa in modo discontinuo o intermittente, a seconda delle esigenze individuate dai contratti collettivi anche con riferimento alla possibilità di svolgere le prestazioni in periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno.

 Il lavoro a chiamata è un contratto vero e proprio. Prevede le ferie, la malattia, il versamento di contributi per la pensione che non sono infinitesimali. Resta uno strumento ad alta flessibilità. Ma garantisce di più il lavoratore: se il dipendente supera le 400 giornate di lavoro nell’arco dei tre anni, per l’azienda scatta l’obbligo di assunzione con contratto stabile. Un vincolo che per i voucher non esiste. Mentre alle aziende costa di più. Se un’ora di lavoro pagata con i voucher veniva all’impresa 10 euro tutto compreso, la stessa ora pagata con il lavoro a chiamata costa tra i 20 e i 25 euro. La variabilità non dipende solo dal settore, ma anche dalla cosiddetta indennità mensile di disponibilità. Il lavoratore può dichiararsi disponibile ad accettare comunque la chiamata dell’azienda, salvo che in caso di malattia. In questo caso ha diritto a una somma aggiuntiva, pari al 20% della busta paga.

 Il contratto a chiamata può essere stipulato con soggetti con meno di 24 anni di età, purché le prestazioni lavorative siano svolte entro il venticinquesimo anno, e con più di 55 anni. Il decreto allo studio del governo cancellerà i due limiti d’età. Il lavoro a chiamata sarà utilizzabile per tutti.

 Il contratto di lavoro intermittente è ammesso, per ciascun lavoratore con il medesimo datore di lavoro, per un periodo complessivamente non superiore a 400 giornate di effettivo lavoro nell’arco di tre anni solari, ad eccezione dei settori del turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo. In caso di superamento di questo periodo, si legge nel decreto, ‘il relativo rapporto si trasforma in un rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato’.

 In caso di malattia o di altro evento che gli renda temporaneamente impossibile rispondere alla chiamata, il lavoratore è tenuto a informarne tempestivamente il datore di lavoro, specificando la durata dell’impedimento, durante il quale non matura il diritto all’indennità di disponibilità. Se il lavoratore non informa il datore perde il diritto all’indennità per un periodo di 15 giorni, salvo diversa previsione del contratto individuale. Il rifiuto ingiustificato di rispondere alla chiamata,  si legge nel decreto,  può costituire motivo di licenziamento e comportare la restituzione della quota di indennità di disponibilità riferita al periodo successivo al rifiuto.

 Quanto alla retribuzione, per il contratto a chiamata, il lavoratore deve ricevere, per i periodi lavorati e a parità di mansioni svolte un trattamento economico e normativo analogo a quello di un lavoratore di pari livello, anche se questo è assunto con un contratto diverso. Lo stesso discorso vale per le ferie e per i trattamenti di malattia, infortunio, congedo di maternità e parentale.

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