A meno di dieci giorni dal primo turno delle presidenziali la situazione è altamente incerta. Soltanto il 66% degli elettori si dichiara sicuro della propria scelta. I quattro candidati in testa ai sondaggi stanno in un fazzoletto di 3 punti percentuali tra il 19 di Fillon e il 20 di Mélenchon e il 22% di Macron e Le Pen, tenendo conto che il margine di errore in questo tipo di sondaggi è del 2,7%. I ballottaggi possibili sono dunque 6 e pertanto è possibile che il voto utile faccia aggio sul voto di convinzione fin dal primo turno. Per Macron e Fillon arrivare al ballottaggio contro Marine Le Pen è una quasi certezza di vittoria se prevale il riflesso della disciplina repubblicana, come nel 2002 e nelle più recenti elezioni regionali del 2015. Ma un ballottaggio Le Pen-Mélenchon sarebbe un inedito da non escludere e che, qual che sia l’esito, sarebbe la fine del sistema politico francese e della V Repubblica, fondato su un’alternativa tra i gollisti e la sinistra a guida socialista.
Di passaggio si può notare che i sistemi maggioritari possono dare un’illusione di forza quando danno un’ampia maggioranza nel Parlamento, che non corrisponda ad un reale insediamento politico-sociale, ma appunto al frutto di un sistema elettorale. Può apparire paradossale, ma un maggioritario alla francese è più distorsivo di un maggioritario all’inglese. In quest’ultimo il partito vincitore lo è per esclusivo merito dei suoi candidati ed elettori, perché conquistano la maggioranza assoluta dei seggi uno per uno. Con il ballottaggio al secondo turno prevalgono considerazioni tattiche al limite del meno peggio ovvero prevalenza del voto punizione, quindi la maggioranza assoluta non può essere rivendicata come propria. Di questo il Psf non ha tenuto conto e ha preso decisioni, come se fosse il padrone del paese e non solo di una maggioranza parlamentare artificiale. Si aggiunga che il sistema semi-presidenziale non ha un presidente dimezzato, ma un presidente con più potere di un regime presidenziale puro, dove la divisione dei poteri tra esecutivo e legislativo è netta e dove la disciplina di partito è un concetto estraneo a chi crede veramente nel divieto di mandato imperativo. Con la riduzione della durata del mandato presidenziale da 7 a 5 anni (decisa con il referendum del 24 settembre 2000) e con le legislative a rimorchio delle presidenziali, il Presidente è diventato il padre padrone della sua maggioranza.
Nessuna formazione di sinistra da sola, dopo l’eclisse delle socialdemocrazie scandinave, è in grado di conquistare la maggioranza in elezioni aperte e democratiche. Ci sono ancora divisioni con radici antiche, che prevalgono sulla necessità di un’unità per fronteggiare la drammaticità della situazione con la crisi della democrazia, derivante dall’impotenza della dimensione dello stato nazionale rispetto alla dimensione planetaria dei problemi (ambientali, finanziari, di sviluppo ineguale, terrorismo, guerre e migrazioni di massa), dall’egemonia dei governi sui parlamenti nazionali e sulle organizzazioni internazionali, dalla crescita delle diseguaglianze a danno della coesione sociale. La crescente astensione elettorale dovrebbe indicare la direzione di conquista di consensi sulla base di un progetto alternativo credibile piuttosto che essere impegnati in una gara al sorpasso, che come la Spagna dimostra ha come vincitore la destra.