Addio voucher, è boom dei contratti a chiamata. La nota congiunta di ministero del Lavoro, Istat, Inps e Inail fotografa per i lavoratori a chiamata, nel primo trimestre 2017, “un notevole incremento (+13,1%), anche a seguito di fenomeni di sostituzione rispetto ai voucher”.
I buoni lavoro sono stati aboliti per decreto a partire dal 18 marzo e al loro posto sono subentrati, almeno in parte, questi tipo di contratti che, per prestazioni con una frequenza non predeterminabile, per esempio nello spettacolo o nel turismo, permettono alle imprese di chiamare solo all’occorrenza il lavoratore, che è occupato in media per dieci giornate al mese.
Secondo i dati, appare in espansione anche il lavoro somministrato, il vecchio lavoro interinale, che a inizio 2017 mette a punto l’aumento tendenziale maggiore degli ultimi quattro anni (+22,4%). E’ un altro strumento con cui vengono rimpiazzati i voucher, diminuiti del 2,1% all’inizio del 2017, in attesa dei nuovi libretti famiglia e del contratto di prestazione occasionale per microimprese introdotti dalla manovra di aprile.
Il lavoro a chiamata è un contratto vero e proprio. Prevede le ferie, la malattia, il versamento di contributi per la pensione che non sono infinitesimali. Resta uno strumento ad alta flessibilità. Ma garantisce di più il lavoratore: se il dipendente supera le 400 giornate di lavoro nell’arco dei tre anni, per l’azienda scatta l’obbligo di assunzione con contratto stabile. Un vincolo che per i voucher non esiste. Mentre alle aziende costa di più. Se un’ora di lavoro pagata con i voucher veniva all’impresa 10 euro tutto compreso, la stessa ora pagata con il lavoro a chiamata costa tra i 20 e i 25 euro. La variabilità non dipende solo dal settore, ma anche dalla cosiddetta indennità mensile di disponibilità. Il lavoratore può dichiararsi disponibile ad accettare comunque la chiamata dell’azienda, salvo che in caso di malattia. In questo caso ha diritto a una somma aggiuntiva, pari al 20% della busta paga.