Una tragica realtà: la violenza minorile

Cosa spinge un adolescente o un giovane adulto a commettere delitti o reati spietati e crudeli? Le cronache di oggi sono costellate di eventi che ci lasciano spesso di stucco, risulta infatti difficile nell’immaginario collettivo pensare che una personalità in statu nascendi ancora immatura fisicamente e psichicamente, possa essere responsabile di atti così efferati.  In psicologia, soprattutto nel contesto valutativo della violenza minorile bisogna fare i conti con alcuni limiti: da un lato la difficoltà a discostarsi  dall’immagine mitica del minore immacolato e innocente, dall’altro la tendenza  a  guardare il giovane come un piccolo bonsai cioè come una riproduzione in miniatura dell’adulto, eclissando così tutte quelle specificità cognitive e morali proprie di “quella” personalità in via di formazione.  Sono state queste le problematiche sollevate giorni fa nel dibattito che si è tenuto al Centro Pierre di Reggio Calabria e che ha visto come protagonista il Prof. Ugo Sabatello, neuropsichiatra infantile e responsabile del servizio di psicoterapia di bambini, adolescenti e genitori del dipartimento di Scienze neurologiche, psichiatriche e riabilitative presso l’Università “La Sapienza” di Roma. La sua ultima pubblicazione “Lo sviluppo antisociale, dal bambino al giovane adulto. Una prospettiva evolutiva e psichiatrico forense” (Raffaello Cortina Editore) apre un orizzonte sconfinato di riflessioni riguardo i precursori, l’esordio, i segni  e le ripercussioni socio-psicologiche  e criminologiche della violenza minorile, importanti elementi da osservare scrupolosamente per chi si occupa  di valutazione psichiatrico forense ma più in generale per tutti coloro i quali hanno quotidianamente a che fare con la “sfida educativa” quali i genitori che possono notare i primi campanelli di allarme, gli insegnanti e gli operatori sociali che trascorrono gran parte del tempo con il bambino ed hanno modo di testare le sue capacità relazionali e comunicative con il gruppo dei pari e di segnalare  eventuali sintomi preoccupanti. Come ha più volte ribadito Sabatello, “La violenza non è una malattia ma un sintomo” pertanto non possiamo parlare di una terapia per eccellenza della violenza, l’impegno preventivo deve riguardare da vicino tutti noi, bisogna impostare un percorso rieducativo, i farmaci da soli non bastano! Ciò è maggiormente veritiero nel caso dei reati sessuali compiuti in età evolutiva, altro importante argomento ampiamente trattato  nel testo e  anche questo tema abbastanza dibattuto e fonte di costanti diatribe tra gli studiosi. I juvenile sexual offenders (JSO), così definiti nel gergo anglosassone,  sono preadolescenti dai 10 anni in su che commettono i loro primi reati sessuali contro giovani vittime (consanguinee o coetanee sconosciute) ad un età che oscilla tra i  13-18 anni.  Infatti, studiosi quali  Bourduin e coll. (1990) hanno rilevato che il tasso di recidive dei reati a sfondo sessuale è correlato al tipo di trattamento;  questi ragazzi se supportati e accompagnati nel loro percorso da terapie  integrate (familiare, individuale psicodinamica e/o cognitiva comportamentale, di gruppo, farmacologiche) hanno dei rischi di recidiva a distanza di anni pari al 12,5%, mentre tale tasso aumenta al 75% se il giovane viene supportato solo farmacologicamente o con psicoterapia individuale. Importante infine è il significato che l’atto violento assume per chi lo compie. Studi psicodinamici dimostrano che l’economia interna del ragazzo spesso è contraddistinta da un’angoscia di separazione-individuazione evocante la morte e la castrazione (Balier,1997). Nel tentativo di padroneggiare il vissuto di passività derivante da relazioni oggettuali precoci traumatiche il soggetto risponde a tale angoscia con meccanismi di difesa primitivi quali il diniego, la scissione e la proiezione             (Sabatello, Di Cori, 2001). Per alcuni JSO  il delitto è un’azione trasgressiva, una necessità imperiosa che si accompagna al diniego ed alla sfida: al diniego perché il soggetto rifiuta di riconoscere la realtà traumatica e le responsabilità dell’azione, e sfida poichè attraverso di esso tenta di ripristinare l’onnipotenza narcisistica (Chartier, Chartier,1992). Da questo punto di vista, l’atto violento deve essere interpretato come una metafora espressiva, il segno di operazioni mentali tese a eliminare le percezioni e la sofferenza dalla coscienza, tenendo conto dell’età di questi soggetti ancora aperta a diverse ipotesi di sviluppo che dipendono almeno in parte, dalla qualità del nostro intervento (Sabatello, Di Cori, 2001).

di *Pasquale Romeo Responsabile di Psichiatria e Psichiatria Forense. Gruppo di Ricerca in Scienze Medico-Legali, Sociali e Forensi Università di Siena;

*M.Laura Falduto, Psicologa.

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