L’Italia si è vista bocciare ieri la manovra di bilancio dalla Commissione europea. L’esito del braccio di ferro era scontato, preannunciato da almeno 36 ore dai due vice-premier Luigi Di Maio e Matteo Salvini. Entrambi i leader della maggioranza giallo-verde si sono detti indisponibili a prendere in considerazione un piano B per correggere il testo della legge di Stabilità. Il deficit resterà fissato al 2,4% del pil nel 2019, ma è stato lo stesso premier Giuseppe Conte ad avere rassicurato ieri che questo sarebbe il limite massimo per il disavanzo fiscale, dicendosi disponibile a valutare un contenimento della spesa, specie se i mercati finanziari dovessero peggiorare il loro giudizio sul nostro debito pubblico.
Già nei giorni scorsi era stata indicata, in modo inadeguato, la soglia dei 400 punti base per lo spread BTp-Bund a 10 anni quale limite accettabile dal governo, toccato il quale si sarebbe rimesso mano alla manovra. Adesso, si punta a superare la scadenza di venerdì prossimo, quando S&P dovrà comunicare l’aggiornamento del rating per i nostri BTp. Scontato anche in questo caso il declassamento, ma se fosse in linea con quello di Moody’s (-1 gradino e outlook stabile), tutto sommato la reazione dei mercati sarebbe positiva e lo stesso esecutivo tirerebbe un sospiro di sollievo, potendosi concentrare sulla prosecuzione della lotta contro Bruxelles.
Due le altenative: tenere duro sulla manovra così com’è senza cedimenti o ammorbidire alcune voci, magari contenendo il monte-spesa per reddito di cittadinanza e revisione della legge Fornero, giocando sulle condizioni più restrittive per accedere ai benefici dell’una e dell’altra misura. Il sussidio, ad esempio, verrebbe limitato nel tempo (si parla già di erogarlo fino a 18 mesi e non i 36 inizialmente previsti), così come la stessa ‘quota 100’ sarebbe resa temporanea e non definitiva.
Molto dipende dalla capacità delle parti di venirsi reciprocamente incontro. Tuttavia, non sarà sfuggito ai più che qui non stiamo assistendo realmente a una battaglia sulle virgole del deficit, quanto a uno scontro campale tra l’élite politico-burocratica dominante europea e il primo governo seriamente intenzionato e capace di abbatterla. La prima ha la necessità di mostrarsi dura ed efficace prima delle elezioni europee, non potendosi permettere che i ‘sovranisti’ la vincano e magari spuntino buone condizioni per cercare di sostenere la crescita economica, quando ad oggi l’unica parola d’ordine è stata ‘risanamento’. Da qui, lo scenario non improbabile di un acuirsi delle tensioni tra Roma e Bruxelles, con l’apertura formale della procedura d’infrazione per deficit eccessivo e mesi di pseudo-analisi dei nostri conti pubblici, prima che i commissari decidano se comminarci la sanzione.
A quel punto, bisognerà prendere in considerazione una variabile di cui stiamo tenendo ancora poco in considerazione: Sergio Mattarella. Ieri, il presidente della Repubblica ha invitato al rispetto dell’equilibrio di bilancio, sostenendo che dal disordine scaturirebbero solo contraccolpi ai danni dei più deboli. Insomma, il capo dello stato rinnova le preoccupazioni già espresse all’atto della nascita del governo Conte, quando si era rifiutato di nominare Paolo Savona ministro dell’Economia, nel nome della tutela dei risparmi degli italiani. Egli ha di fatto l’ultima parola sulla manovra, in quanto serve la sua firma per licenziare il testo approvato dal Parlamento e farlo entrare formalmente in vigore. Se non lo approvasse? Il Quirinale potrebbe appellarsi alla Costituzione, che non dobbiamo dimenticare che prevede dal 2012 il pareggio di bilancio all’art.81.
Mattarella avrebbe sufficienti basi giuridiche per rispedire il testo indietro sulla base di due violazioni della Carta: quella all’equilibrio dei conti pubblici e sulla non conformità della manovra agli impegni internazionali assunti dall’Italia. Se accadesse, sarebbe un inedito nella storia repubblicana. Il rischio per il governo consisterebbe nel dovere gestire i primissimi mesi del 2019 in dodicesimi (esercizio provvisorio), ovvero limitandosi a spendere ogni mese e fino a non oltre il 30 aprile non più di un dodicesimo del monte-spesa del 2018. Per quanto lo scenario spesso venga dipinto catastroficamente, vi si è fatto ricorso ben 33 volte nel corso della Prima Repubblica e ai mercati non dispiacerebbe, non fosse altro per l’automatica limitazione della spesa pubblica. Tuttavia, sul piano politico si arriverebbe a uno scontro senza precedenti tra tre organi dello stato: il potere esecutivo e quello legislativo da un lato e la massima carica dall’altro. In un impeto disperato di contrasto all’ondata ‘sovranista’, Mattarella prenderebbe persino in considerazione l’ipotesi delle sue dimissioni.
Esse sarebbero state sul tavolo anche nei mesi passati, seppure rinviate per non surriscaldare il clima già caldo sui mercati finanziari. Non è difficile comprendere che con la nascita del primo governo autenticamente euro-scettico d’Italia, il capo dello stato si senta un pesce fuor d’acqua. Il suo dialogo con Palazzo Chigi è retto a malapena da Giancarlo Giorgetti, numero due della Lega, da sempre espressione dell’ala più istituzionale del Carroccio, anche poco potrebbe in uno scenario di indurimento dello scontro tra Roma e Bruxelles. Le dimissioni di Mattarella non sarebbero un atto di resa, bensì di sfida finale ai populisti da parte di quel mondo europeista tout court, che negli ultimi decenni ha costruito carriere politiche e fisionomia istituzionale sul legame indissolubile con le istituzioni comunitarie. Le elezioni europee verrebbero trasformate in una resa dei conti definitiva tra i due mondi che mal convivono ormai dentro le istituzioni nazionali. I mercati non la prenderebbero bene, anche perché tra i papabili successori di Mattarella vi sarebbero nomi come Giulio Sapelli e lo stesso Savona, entrambi euro-critici. Si romperebbero le dighe di contenimento del sovranismo tricolore. Piaccia o meno, prima o dopo lo scossone è atteso che si verifichi.