In questo maggio romano piovoso, un poco di sole è stato l’incontro avuto con Iginio De Luca, affermato artista tra i più e interessanti del panorama italiano. Dallo scorso 8 maggio è visitabile sull’isola della Giudecca, la sua istallazione site-specific durante la 58esima Biennale di Venezia. Il 28 maggio sarà al museo MAXXI di Roma a presentare il suo progetto più significativo: il suo libro. E’ il caso di approfondire, far domande.
Chi è Iginio De Luca? Qual è la tua formazione, quali sono state le motivazioni e i percorsi intrapresi che ti hanno spinto a diventare un artista?
Difficile concentrare 52 anni di vita in una risposta. Sono un ossimoro vivente, sprofondo nell’insicurezza più oscura e m’innalzo nell’autostima più esaltante in un continuo oscillare, come perennemente appeso all’elastico del bungee jumping. Sono timido e doso molto le parole fino a quando con i miei amici mi lascio andare a gag verbali che, a quanto pare, divertono molto. Ho due livelli di espressione: uno più sotterraneo, introverso e l’altro più eclatante e dissacratorio. Citando Lorand Hegyi mi sposto fra “l’analitico-metodologico-rigoroso e il sovversivo-scettico-indipendente”, frase che trovo particolarmente calzante. Nell’arte mi piace raggiungere la semplicità attraverso dei procedimenti mentali complessi, quasi che la fatica e il tempo di esecuzione spariscano di fronte a un lavoro che, magicamente, si genera da sé per un processo naturale, automatico e necessario. Non penso si diventi artista, lo si è semplicemente senza neanche domandarselo. Il ricordo lontano di quei bersaglieri disegnati per il 2 giugno all’asilo era il presagio artistico di una sensibilità che già innocentemente contaminava di politica il segno incerto delle matite colorate sulla carta leggera e rigata dell’album. Sono flash ovattati della memoria che dopo decenni riannodano le apparenti casualità della vita. Poi interviene la coscienza, l’essere “artista”, il liceo, l’Accademia di Belle Arti, il fare legato a un pensiero, le coordinate stilistiche, le esperienze espositive e quella che sembrava un’indole caratteriale diventa la vita, la scelta involontaria. Nel 2003, però, alla morte dei miei genitori tutto cambia e insieme alla sofferenza, la sorpresa e lo spaesamento riaffiorano, le emozioni sopite da tempo. Nel paradosso della vita ho ripreso a sentire intensamente l’arte e il quotidiano, a trattenerne costantemente le tensioni e i sapori. La discesa nel proprio mare, forse necessaria o forse no, aiuta la risalita che non è mai a mani vuote. Nel fondo ho lasciato l’insicurezza patologica, l’eccessivo decorativismo, la noiosa e fredda ricerca della perfezione. Tra le dita ho una componente miracolosa che avevo da piccolo, rimossa da adolescente e ripescata da grande: l’ironia, la consapevole incoscienza di distaccarmi da me e sorridere godendomi gli attimi di spontaneità e leggerezza. L’involontaria dedizione al creare e al fare, mi ha spinto negli ultimi anni fuori da me. Il raggio di attenzione si è allargato e dal 2010 circa si fa strada anche la dimensione collettiva e politica. Da quel momento sono più aperto all’incontro e ogni lavoro contempla in sé la relazione con l’altro, ne coinvolge le emozioni, le reazioni, le vite.
Ci sono persone, incontri e “maestri” che hanno migliorato e perfezionato la tua sensibilità artistica? Cosa ti hanno lasciato? Inoltre so che insegni all’Accademia delle Belle Arti di Frosinone, dunque sei il “maestro” che si relaziona come loro fecero con te?
Ho studiato Pittura in Accademia a Roma intorno alla metà degli anni ’80. Il mio docente è stato Enzo Brunori, uno degli ultimi protagonisti dell’arte “astratto-concreta” insieme a Corpora, Birolli, Morlotti. Grande persona, colta, romantica, severa e appassionata che però scambiò la sua poetica per la nostra didattica. Lapsus comune agli artisti con un ego importante. All’inizio per me lui era il Maestro, indiscutibile e inespugnabile: un suo giudizio positivo valeva settimane di autostima, carburante creativo per la mia anima inquieta e smarrita. Poi il mito scende un gradino, si proporziona al mondo e diventa visibile, arginabile, discutibile. La stima non cessò mai però. A lui devo la maniacale e amorevole attenzione per ogni minimo particolare del mondo naturale e sensibile, la ricerca di una metodologia lavorativa, un approccio profondo all’arte e ai criteri di osservazione della realtà. Complementare a Brunori, umbro di nascita e di struttura, venne a scombinare i nostri piani accademici e le poche idee sul contemporaneo un altro Maestro, altrettanto umbro: Sauro Cardinali. Tuttora, pur nella diversità del nostro operare, è per me un punto di riferimento intellettuale e poetico. Il suo parlare, che è il suo vivere, diventa il viaggio labirintico della mente che decodifica e ricodifica ciclicamente il senso della realtà in tutte le sue sfaccettature. Il suo lavoro sublima le infinite stratificazioni del suo pensiero, una macchina inesauribile di visioni, di linguaggi, di articolate soluzioni estetiche e concettuali. Poi ci sono i Maestri distanti per geografia e cronologia: una lista infinita partendo da Caravaggio, Rembrandt, Michelangelo fino ad Alfredo Jarr, Francis Alys, Mircea Cantor, Santiago Sierra ma anche Fabio Mauri e Alighiero Boetti. Riescono a maneggiare creativamente e con cura questioni politiche, oltre che artistiche, elevandone i contenuti, evitando i luoghi comuni didascalici, ideologici, di sterile schieramento. Aggiungerei che nella mia vita ci sono stati e spero ci saranno altri incontri non necessariamente afferenti il mondo dell’arte e che molti di questi hanno solcato profondamente il mio cammino, arricchendo di punti di vista, di soluzioni interpretative e affettive la realtà che mi circonda. Tutto il bagaglio dell’esperienza didattica, da studente come da docente, mi porta oggi a una maggiore consapevolezza che marca una distanza, seppur impossibile, tra la mia visione poetica del mondo e quella accademica di insegnante. Dosare le reciproche confluenze di un campo nell’altro filtrandone i contributi creativi in ambito didattico: questo il mio compito, questo il mio obiettivo fin dal 1995, anno in cui feci la mia prima supplenza come professore all’Accademia di belle arti di Catania. Analizzando il tuo lavoro, emerge una sensibile attenzione verso temi politici, sociali ed etici che caratterizzano un aspetto della tua poetica. Cosa ti coinvolge maggiormente come artista e come persona?
Ribadisco, la persona e l’artista sono la stessa cosa, non riuscirei a concepire una vita in cui mi tolgo e mi rimetto continuamente il camice da pittore. Sono e sarò sempre un pittore anche quando vado alla posta a pagare la bolletta della luce. I blitz sono la risposta pubblica e visionaria a ciò che intorno più mi coinvolge e mi stimola. Ma cos’è un blitz? Giocare un tranello alla realtà e sorprenderla alle spalle, questo è un blitz. In tutte le azioni, da quelle più “impegnate” fino alle performance più goliardiche, c’è sempre un aspetto che emerge, un denominatore comune che ne marchia lo spirito. E’ la sorpresa, lo svelamento improvviso di un qualcosa che non ti aspetti che interrompe un codice, spezza una certezza e rimette tutto in gioco in un capovolgimento di prospettive e punti di vista. Atteggiamento che non è mai cambiato da cinquantadue anni, ancora prima di avere una coscienza artistica e sovversiva. Nei miei blitz c’è il desiderio romantico e ispirato di compiere un gesto trasversale, arrivare a colpire creativamente qualcosa d’irraggiungibile e lanciare la sfida. L’idea è di inceppare un meccanismo e riavviare un pensiero, specchiare il quotidiano minandone i luoghi comuni per trovarne il senso nascosto e poi svelarlo, sovvertendone i significati. Sono dieci anni di vita pubblica condensati in interventi flash non invasivi e indolori, incursioni effimere non autorizzate che visualizzano momenti topici della nostra società con un pensiero performativo sempre rafforzato attraverso il filtro dell’arte. Sarcasticamente celebro l’amaro collasso morale, lo smarrimento globale e l’impotenza dell’Italia nelle varie declinazioni, dal sistema dell’arte a quello politico e istituzionale fino a quello religioso. Non so quanto questi lavori incidano direttamente sul terreno della realtà, ma mi piace crederlo, è principalmente una questione di fede. “Ciò che un uomo fa è come se lo facessero tutti gli uomini. Per questo non è ingiusto che una disobbedienza in un giardino contamini il genere umano” (J.L.Borges)
Riesci sempre a coinvolgere nei tuoi progetti altre persone che sposano la tua causa e credono nella tua idea? Cosa credi che li spinga a partecipare?
Ultimamente si, sono progetti che hanno bisogno della relazione, del contributo umano ed emotivo delle persone che incontro. Progetti che avranno seguito perché hanno già dei precedenti, poetici e partecipativi appunto. Sotto/Sale del 2017, Expatrie del 2015 e Sciarrata del 2014. Il primo era un’installazione sonora pensata per le saline di Margherita di Savoia che coinvolgeva gli abitanti di questo luogo metafisico e incantato. Dalla spessa coltre di sale uscivano otto cuffie contenenti le memorie delle persone intervistate. Ogni cuffia raccontava ciò che le persone avevano conservato, congelato, sottratto all’oblio del tempo, i momenti cruciali della loro vita da porre metaforicamente sotto sale: le conservazioni affettive, possiamo chiamarle così. Il secondo era motivato da una condizione sociale e politica molto delicata presente a Roma nel quartiere Prenestino, nel contesto umano e artistico del MAAM. Ho mappato 17 case abusive ricavate da uno spazio industriale fotografando le rispettive famiglie che vi abitano. La sovrapposizione delle loro immagini con le planimetrie ha generato esiti poetici e insieme politici in un connubio rischioso ma molto stimolante, a cavallo tra la sfera pubblica e quella privata. Il terzo progetto consisteva in una performance di un gruppo di sbandieratori di Maranola (LT). Sulle bandiere avevo stampato i volti degli abitanti del luogo, i protagonisti di pettegolezzi, rivalità, gelosie e antipatie che animano le astiosità di ogni piccolo borgo. Facendo “sbandierare” in pubblica piazza le effigi dei protagonisti di queste schermaglie, il fronteggiamento coreografico è diventato un gioco leggero e liberatorio. Il motivo che spinge le persone a prendere parte attivamente a questo tipo di progetti presumo sia semplicemente la mia persuasività e accoglienza. Se sei convinto convinci anche gli altri appassionandoli.
5- Durante la 58esima Biennale di Venezia, c’è un evento collaterale a cui tu hai preso parte, ne vuoi parlare?
La mostra si è inaugurata il 9 maggio e si intitola “Tu vs Everybody,” – progetto Ideato da Anita Calà, Fondatore e Direttore Artistico dell’associazione VILLAM, e sviluppato con la co-curatela di Elena Giulia Rossi – che si dispiega all’interno del Giudecca Art District, presso lo Spazio Bocciofila visibile fino al 6 Giugno 2019. Tu vs Everybody ha portato 7 artisti tra i più interessanti del panorama italiano, giovani e affermati (Arri, Berchicci, Cagol, Cicero, De Luca, Teotino, Zanni), ad intervenire con progetti site-specific nell’isola della Giudecca. Il mio lavoro pensato per questo evento s’intitola “Twenty-eight Penalties” ed è un’installazione sonora a due canali realizzata in esterno e ruota attorno a concetti opposti, contraddittori: unione e divisione, ordine e caos, singolarità e pluralismo. L’inno ufficiale dell’Unione europea è costituito da un brano del movimento finale della Nona sinfonia di Beethoven, chiamato anche Inno alla Gioia della durata di 1’03’’. Ragionando musicalmente su ogni inno nazionale dei 28 paesi membri dell’Unione sovrappongo le singole melodie in un’unica traccia sonora della stessa durata dell’inno ufficiale. Tranne una però, che andrà a essere diffusa nella cassa audio di fronte distante 11 metri dall’altra, la distanza della porta di calcio dal dischetto di rigore. L’installazione così vivrà costantemente una tensione fatale di natura calcistica ed ampiamente simbolica: ogni “stato-avversario” batterà un rigore musicale contro una porta da gioco protetta dai 27 stati europei rappresentati dai rispettivi inni. Alla fine di ogni “disputa” sonora, il singolo stato cederà il posto a un altro precedentemente immerso nel caos collettivo e così via per altre 27 volte.
6Mi parli dei tuoi ultimi progetti più significativi?
Il progetto più significativo è il mio libro su tutti i blitz realizzati nell’arco di questi ultimi dieci anni. Edito dalla Mincione Editions, a cura di Claudio Libero Pisano, presentato il 28 maggio al museo MAXXI di Roma. Con il supporto sapiente e paziente di Riccardo Gemma, il grafico, abbiamo dato alla luce una bellissima pubblicazione di 280 pagine ricca di contributi critici. Venti blitz: incursioni urbane non autorizzate nello spazio pubblico della capitale. Un corpo di azioni che attraversa, testimoniandola, l’attualità politica, sociale e culturale della capitale e dell’Italia, azioni che non sono mai semplici atti goliardici o colpi di teatro superficiali. Nell’urlo e nel grottesco del gesto, c’è sempre un invito a riflettere. Una pubblicazione per me importante, frutto di un lungo lavoro performativo e appassionato, documentato con disegni e immagini, genesi e sviluppo di ogni singolo intervento: un tassello in più nella mia vita di pittore con il camice.
Barbara Lalle