Il corpo delle donne: intervista Lori Adragna

Incontro in un pomeriggio romano Lori Adragna, critica e curatrice d’arte contemporanea, a pochi mesi dall’uscita del suo libro “Il corpo delle donne [archivio di una curatrice di performance]” per Edizioni INSIDEART AUTORI 2018.

Chi è Lori Adragna? Qual è la sua formazione? 

Tendenzialmente una donna del sud dalle mille sfaccettature, appassionata di arte e psicoanalisi, una radicante con la vocazione al nomadismo. Sono nata e cresciuta in un’antica villa nei dintorni di Palermo, città che ho nel sangue e amo per le radici multiculturali (la mia stessa famiglia materna ha origini e tradizioni Arbresh, quella paterna anglosassoni) e per la ricchezza del patrimonio storico-artistico e ambientale; ma che ho profondamente odiata fino ad abbandonarla, per la specificità della condizione femminile meridionale più accentuata di oggi all’epoca della mia infanzia e adolescenza. Oppressa dall’isolamento, dai modelli di riferimento patriarcali, sessisti, dagli stereotipi discriminanti e schemi socio culturali repressivi, che ho combattuto non senza problemi e conflitti, rabbia e confusione, prima di poter innescare il mio processo di liberazione e riappropriarmi di me stessa.

La mia formazione, guardandola a posteriori, è stata una sorta di esperienza trans generazionale influenzata dai variegati personaggi che compongono la mia costellazione familiare del passato e del presente, a partire dal trisavolo, medico filosofo e matematico, fondatore del primo laboratorio di psicologia sperimentale in Italia, passando, per la zia italo-belga esperta di linguistica, lo zio pittore e la nonna materna sorta di strega bianca col mito dello status nobiliare, inesauribile narratrice di spaventevoli fiabe archetipiche, fino a mia madre, poetessa e scrittrice bilingue alla quale ho dedicato “Il corpo delle donne”. Fra tutti spicca però la figura di mio padre, psichiatra freudiano, militante e amico di Basaglia, un outsider nel contesto familiare per certi versi chiuso e tradizionalista. Soggiogata dalla sua personalità e dai suoi ideali, ho sviluppato un attaccamento morboso e conflittuale nei suoi confronti, tanto che è stato arduo liberarmi dai sensi di colpa per non aver realizzato il suo sogno: mi vedeva a seguire le sue orme, sorta di Annina, figlia e vestale del grande Sigmund.Ne sono uscita a fatica cercando di integrare le mie molteplici anime, con la specializzazione in simbologia junghiana applicata all’arte contemporanea. Gli studi accademici letterari, storico-artistici, e di scienze psicologiche (insieme ai laboratori di arte-terapia tenuti all’interno di comunità per disagiati psicosociali) hanno centrato poi, la mia attenzione, sul processo creativo, relazionale ed espressivo, tra arte e alterità.

Quali sono state le motivazioni e i percorsi intrapresi che l’hanno spinta a diventare una curatrice di performance?

“Il corpo delle donne” nasce otto anni fa come progetto di ricerca, laboratorio che indaga l’universo femminile e i suoi mutamenti attraverso un focus sulla performance art. Abbracciare l’”etica della cura” (Gilligan) è venuto di conseguenza, come percorso di relazione inter- e intra-personale con le artiste, riconoscimento e capacità di accogliere l’altro pur conservando la mia dimensione. Dalla voglia di credere nelle donne e nei loro gesti, per valorizzare e dare forza alle narrazioni espresse dai loro stessi corpi.

A pochi mesi dall’uscita del suo ultimo libro, “Il corpo delle donne”, come sta vivendo lei come autrice, questa esperienza? In cosa la sta trasformando questo suo lavoro editoriale sulla performing art, l’arte della trasformazione per eccellenza?

Non mi pare che l’esperienza come autrice mi abbia cambiato più di tanto, piuttosto direi che la decisione di pubblicare i materiali del mio lavoro per condividerli, rappresenti il climax di un personale processo trasformativo, che ho esplicitato nell’exergo del libro con le parole di Carla Lonzi: “Adesso esisto, questa certezza mi giustifica e mi conferisce quella libertà in cui ho creduto da sola. Tutte le distinzioni, le categorie che esprimevano il costituirsi della mia identità non mi appartengono più: faccio ciò che voglio” (Taci, anzi parla, 1978).

– Il titolo riporta a margine un piccolo #1. È il primo di un progetto di pubblicazione delle sue esperienze e dei suoi materiali?

Sì, “Il Corpo delle donne” è un progetto itinerante in progress e in vista della pubblicazione del secondo volume (2020 – 2021) sto già raccogliendo la documentazione delle azioni di alcune artiste con le quali ho lavorato a partire dal 2018. Intendo inoltre arricchire il nuovo libro attingendo alla prossima esperienza di collaborazione con il Festival di performance e arte dal vivo “A Present Heritage” (18.11 al 15.12.2019 Palazzo Sambuca, Palermo), inserito tra gli eventi della BAM – Biennale dell’Arcipelago Mediterraneo è ideato dall’artista italo-finlandese Egle Oddo. Il progetto che è incentrato sul dialogo tra diverse generazioni di artisti/performer con l’obiettivo di ricevere e trasferire la conoscenza, vede la partecipazione di Collective Intelligence, supportato da partner finlandesi, dalla galleria Myymälä2, Pixelache Helsinki e dall’Ambasciata finlandese in Italia. I partner di Palermo, Dimora Oz, KAD, l’Università di Palermo e l’Unità Operativa Mediazioni e Giustizia Riparativa di Palermo che sarà presente con un seminario sull’importanza della mediazione per la coesione sociale.

– Il libro è organizzato in sezioni dedicate ad ogni singola artista con cui lei ha lavorato dal 2009 al 2017. Per ogni sezione ci sono 2 testi, uno dell’artista stessa, uno suo. Due pagine di due diari per il suo racconto?

Più che di un diario, si tratta di un tentativo di raccontare la genesi della performance attraverso vari livelli di lettura, nella fase di passaggio tra idea iniziale e concreta realizzazione dell’evento. Il libro, introdotto dalla prefazione di Maria Giovanna Musso, è diviso in sezioni: il primo testo, quello dell’artista, riproduce la sua proposta progettuale che può essere sotto forma di e-mail, testo poetico, report di conversazioni e così via. Il secondo, a mia firma (testo critico, stralcio del comunicato, (meta)commento eccetera), ridescrive una fase intermedia, quando, dopo aver indossato le vesti sia di organizzatrice che di complice del processo artistico, mi faccio interprete di una vicinanza creativa. La documentazione fotografica, in quanto oggetto “sociologico”, offre poi la possibilità di cogliere sul vivo l’azione e insieme la dialettica per cui essa diviene significativa attraverso la comunicazione ad una collettività.

Questa impostazione è parto di una lunga riflessione sulla complessa e spinosa questione sulla riproducibilità della performance che -secondo la studiosa femminista Peggy Phelan- per la sua natura effimera e intangibile, non si può documentare se non costringendola a subire un’inevitabile trasformazione ontologica. Tesi per certi versi invalidata da Philip Auslander che in studi recenti ha esplorato la complessa interrelazione tra performance, documentazione e autenticità, sostenendo che ogni report su un progetto di ricerca – incluse la documentazione, l’analisi e la scrittura critica – è sempre un’ulteriore performance in sé che non reifica la dimensione viva e attiva dell’azione.

–  “…ipersensibili, ambiziose, intense, talentuose, impercettibilmente diffidenti…” lei descrive così le artiste, creature tra le più prossime alla Dea Arte da averle dedicato il loro corpo. In una maniera da farci fatalmente innamorare di loro. Lei lo è?

Forse sì, ma certo non di tutte: il ricordo di alcune ha su di me un effetto trigger. Scherzi a parte, spinta dal desiderio di costruire relazioni tra donne al di fuori di tentazioni egemoniche, in una dimensione di scambio e arricchimento reciproco, ho avuto modo con le artiste di incontrarmi/scontrarmi, di immaginare insieme, di stare, insomma, in contatto. Quella curatore-artista d’altra parte, lo sottolinea Virginia Zanetti che cito nel mio libro, è una relazione d’amore, di intelletto e di scoperta del nuovo, e non c’è rapporto d’amore senza odio, come non c’è rapporto di amore-odio che resti entro confini tracciati a priori. C’è un bisogno di attraversamento continuo delle zone liminari che in fondo appartiene allo stesso progetto.

– La performer italiana o straniera con cui non ha mai lavorato e con cui le piacerebbe lavorare.

Ci sono tantissime artiste di diversa provenienza e generazione con le quali sarei felice di entrare in contatto ad esempio le grandi Tania Bruguera o Rebecca Horn o la stessa Orlan che ho conosciuto in occasione dell’ultima Biennale. Fra le giovani, il primo nome italiano che mi viene in mente e quello di Elena Bellantoni, quello straniero, di Marianne Heier.

– La questione di genere è tanto attuale in questo periodo ed è diventata materia di ricerca continua della performance art

Per molti artisti, usare il corpo come medium nelle esibizioni è un modo per affrontare le loro identità multiple e intersecanti mettendo in discussione questioni di genere. Nel libro, l’argomento è approfondito dalla postfazione di Mona Lisa Tina. In ogni caso, parlando di “questione di genere”, non si può non far riferimento al pensiero di Judith Butler. Genere è diverso da sesso e non è essenziale o biologicamente innato. Il genere è riprodotto attraverso la ripetizione di atti e codici performativi, sia a livello inconscio che a livello cosciente. Il genere è dunque contestuale, fluido e variabile. Queste considerazioni aprono spazi alla possibilità di cambiamento, per adattare, sovvertire e respingere le differenze di genere a cui siamo socio-culturalmente avvezzi lavorando sugli stereotipi riduttivi associati a tutti i sessi.

Nel libro, una sezione è dedicata a Laura Cionci che con la Murga ha cantato “Non una di meno”, suonando percussioni e ballando danze liberatorie. Quanta capacità di penetrazione nel tessuto sociale ha la performing art? 

Luogo simbolico e liminale dove viene catturata la conflittualità sociale e culturale, la performance può essere intesa come strumento per impegnarsi con la realtà, confrontarsi con le specificità dello spazio e della politica dell’identità; la messa in atto di un’azione può dare voce alle persone senza diritti politici o sociali, far rivivere e dare nuovo senso ad eventi e pratiche proprie di altre cultureAnche là dove non dichiaratamente politica, ma ascrivibile più al contesto rituale, la performance può suscitare nello spettatore emozioni perturbanti, di stupore o disagio, spingendolo ad interrogarsi sui conflitti interni -sia lotte interiori sia espressione di problematiche globali. Anche esperienze creative più simili al gioco possono indurre una sorta di frammentazione del nostro immaginario collettivo, ricombinando gli elementi culturali secondo aggregazioni inusuali e riflettendo sullo status quo.

Laura Cionci, una delle 12 artiste coinvolte nel libro (le altre sono: Tiziana Cera RoscoFrancesca Fini, Eva Gerd, Silvia GiambroneTamar Hayduke, Chiara Mu, Ginevra Napoleoni, Francesca Romana Pinzari, Paola Romoli Venturi, Alice Schivardi e Silvia Stucky)è una vera forza della natura! Artista romana che vive e lavora tra l’Italia e il Sudamerica, ha sviluppato la sua ricerca intorno ai fenomeni sociali, approfondendo gli aspetti antropologici che rendono leggibili i diversi codici culturali, sociali e politici. Durante la presentazione corale del mio libro a Roma, presso gli spazi di AlbumArte, ha performato insieme con il gruppo dei murgueri. Come gli altri indossava abiti dai colori sgargianti, suonava e danzava con ritmo frenetico, traducendo in canto il potente messaggio delle realtà femminili e femministe.

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– Un grande ritorno della performing art a livello di interesse in tutto il mondo. Che sia il fenomeno Abramović o che sia soprattutto la crisi? Mie scherzose congetture a parte, la sua idea a riguardo.

Sicuramente la retrospettiva della Abramović a Firenze -così come a Venezia, l’assegnazione della Palma d’oro ad opere di carattere performativo nelle ultime due edizioni della Biennale -, ha contribuito ad accendere i riflettori sulla performance art, trasformando in mainstream un fenomeno che negli anni Settanta germinava come alternativo e di nicchia. Ovviamente il mercato dell’arte allora non era influente come oggi, che richiede a questa espressione artistica immateriale di trasformarsi in bene vendibile e utilizza strategie come il reenactment o la cessione di fotografie, video e oggetti che derivano dall’azione.

Questo grande revival a cui stiamo assistendo è per molti versi legato alla crisi economica: da un lato, infatti, per sue peculiarità permette agli artisti di lavorare low budget; dall’altro, perché nel pubblico è maturata consapevolezza sul corpoe sulle problematiche ad esso correlate. Credo però che l’enorme diffusione, a volte l’abuso, della performance art, risponda al bisogno dell’uomo contemporaneo di staccarsi dai paradigmi imposti dalla società che costringe a vivere come comparse e non come protagonisti. L’uomo si sta allontanando sempre più da sé stesso e dal confronto con l’altro e l’arte, con particolare riferimento alla performance art, rappresenta una delle possibili vie di riconnessione con sé stessi e con gli altri.

Sarà un uomo la prossima performing star? 

Perché no! Tino Sehgal ad esempio, con le sue più o meno provocatorie “constructed situations”, mi sembra stia facendo parlare di sé. Personalmente seguo con grande interesse il lavoro di alcuni performer giovani come Andrea Abbatangelo, Giovanni Gaggia e Yann Marussich.

– Ha mai performato? Anche una sola volta, in una performance partecipativa?

Ho partecipato a diverse performances e per amore, ho performato al Macro qualche anno fa con uno dei miei idoli: Luca Maria Patella; ma si è trattato soprattutto di un gioco fra noi. Non è una mia priorità, preferisco mantenere gli ambiti separati cercando di non diventare “artista tra gli artisti”.

Barbara Lalle

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