All’Auditorium Parco della Musica è in scena fino a martedì 21 gennaio Il Tempo di CHET. La versione di Chet Baker, uno spettacolo in cui il teatro e la parola incontrano la musica jazz.
Il Tempo di Chet, una musica meravigliosa ed una storia devastante, è una doppia pièce in una: quella teatrale scritta da Leo Muscato e Laura Perini per la regia dello stesso Muscato e quella musicale di Paolo Fresu con Dino Rubino al pianoforte e Marco Bardoscia al contrabbasso, che chiamarla colonna sonora è riduttivo.
Lo spettacolo, prodotta dal Teatro Stabile di Bolzano diretto da Walter Zambaldi per la scorsa stagione, sbarca ora per le prime repliche romane.
Incontro per un’intervista Leo Muscato e Laura Perini, compagni nell’Arte e nella Vita, per qualche domanda sul loro ultimo lavoro.
Per iniziare, come è nato lo spettacolo?
Paolo Fresu e il Teatro di Bolzano avevano idea di fare uno spettacolo su Chet Baker e ci hanno coinvolti
Avrete di certo letto ogni libro, ogni saggio, ogni documento su Chet, sulla sua musica e sulla sua vita. Come si configura il personaggio di Chet Baker secondo voi?
Chet è stata una figura tragica molto interessante da approfondire, un artista dal talento spaventoso che a differenza degli altri musicisti jazz non sapeva curare la sua immagine e carriera. Era un cavallo matto, vissuto in un arco di tempo denso di fatti storici di un certo rilievo. Basti pensare che la sua vita e la sua storia prendono le mosse dalla Grande depressione, dal crollo della borsa di Wall Street e finiscono l’anno prima del Crollo del Muro. Muore buttandosi, così si presume, da una stanza di albergo di Amsterdam. Alcuni sostengono che sia stato scaraventato giù dai pusher ai quali non avrebbe pagato le dosi. La sua morte rimane avvolta nel mistero, ma l’ipotesi è molto probabile. O forse ha fatto il “gatto”, scappando dalla finestra della stanza per non pagare il pernotto. O forse era sotto effetto di droghe e, seduto su davanzale, precipitò rovinosamente, chissà. Leggendo le biografie e gli studi critici, ci siamo fatti l’idea che in qualche modo, al musicista non sia stato mai riconosciuto il suo giusto ruolo nella storia musicale del jazz. Forse perché la sua vita è stata discretamente disgraziata per certi aspetti, e in molte fasi della carriera ha perso di credibilità anche nel suo ambiente, anche tra i suoi colleghi, per via degli eccessi, carceri e tossicodipendenza, piccoli reati -e non è che i jazzisti all’epoca fossero delle “collegiali”- ma di lui dicevano che era un matto a sprecare così il suo talento… Di fatto, venne trattato alla stregua di un criminale comune, estradato da una serie di Paesi, da mezza Europa sostanzialmente, coll’Interpool sempre alle costole. Una sorta di strano capro espiatorio perché poi in realtà, erano moltissimi le persone dipendenti da eroina e cocaina nell’ambiente non solo musicale, ma anche tra le star di Hollywood, ma tutto era sottaciuto. Lui invece era un personaggio noto e notoriamente faceva uso di sostanze, non nascondeva questa sua abitudine di vita e quindi è stato penalizzato fortemente. Per il mondo dei capitalisti bianchi dell’America anni ’50, ’60 e anche oltre, Chet era un esempio terribile: un bianco, non un disgraziato, ma un personaggio in vista su tutte le copertine dei giornali con un grado di fama pazzesco. Ci sono andati giù un po’ pesanti con lui; è stato in centri di riabilitazione e detenzione terribili. Nella fase iniziale della sua carriera, forse subì un elettroshock quando giovanissimo si arruolò nell’esercito per poter suonare pagato. Poi disertò, pensando che fosse un escamotage utile a farsi riformare. Non lo riformarono e lo rinchiusero in una clinica psichiatrica. Questo non lo aveva previsto.
E’ la prima volta che lavorate con Paolo Fresu? Come è stato questo incontro?
Paolo Fresu è il gentleman assoluto della musica italiana oltre ad essere un talento smisurato riconosciuto in tutto il mondo. E’ proprio una persona con cui è bello stare e facile lavorare. Una persona propositiva, incredibilmente umile con idee molto chiare e sempre risolutive.
Nell’opera l’attore che interpreta Chet dice: “Il jazz sei tu. Se sei vuoto, suoni il vuoto”.
A questo riguardo il tema dell’autenticità è molto discusso nel jazz e molto sentito fra i musicisti. Puoi essere pure un mago a fare virtuosismi incredibili ma se poi non vengono autenticamente sentiti, rimangono solo esercizi di tecnica. Chet Baker quando suonava le ballads, diceva ai suoi di imparare le parole a memoria anche non dovendo loro stessi cantare, perché le parole ti trasportano all’interno di un mood autentico che, se riesci ad abitarlo, riesci a restituire un’autenticità. Un giorno mentre stava suonando una ballad, nel bel mezzo di un suo assolo, si interruppe perché aveva dimenticato le parole del testo, pur non stando cantando il brano. Nella sua testa le parole diventano note di tromba. Lui suonava nello stesso modo in cui cantava. Con una voce straziata. Aveva l’orecchio assoluto, una musicalità elevata, superiore alla norma. A differenza di molti suoi colleghi dell’epoca che volevano rinnovare la musica, lui voleva suonare e basta. E rimandava agli altri la ricerca di qualcosa di speciale nella sua musica. Il suo poteva non essere un approccio colto, ma di un autodidatta istintivo. Un artista puro.
Come avete lavorato sulla struttura del Tempo di Chet?
Il titolo è stato per noi anche un’indicazione alla struttura dell’opera. Il testo è strutturato in tre tempi diversi: il primo è il tempo dei flashbacks quando ci sono delle azioni in cui lui è realmente protagonista con persone che ha realmente frequentato come Jerry Malligan, Witlock. Poi c’è il tempo delle testimonianze rilasciate da persone che lo hanno conosciuto e che hanno riportano il loro punto di vista: rilasciano delle interviste seduti su una poltrona rossa. E’ come se dicessero la loro all’interno di un convegno su Chet Baker a proposito di come lo hanno conosciuto nelle circostanze di vita. Il terzo tempo è il tempo di Chet, un tempo sospeso, nel quale il musicista vede e rivive frammenti della sua esistenza, in un’altalena tra onirico e realistico. Se ne sta seduto al bancone al quale si alternano otto diversi barman tutti vestiti allo stesso modo: rappresentano una specie di Caronte, traghettatori nell’aldilà; hanno la funzione di fargli prendere lentamente consapevolezza di essere morto. Tutto quello che vediamo in scena è un Requiem.
Come avete utilizzato questo fantastico cast?
Nello spettacolo ci sono 3 musicisti ed 8 attori, uno è Chet Baker in ruolo fisso, mentre gli altri attori interpretano sei personaggi ciascuno che ci sono serviti per raccontare un arco temporale di trent’anni. Sono personaggi funzionali alla narrazione e non personaggi a tutto tondo. Tutto quello che narriamo è molto documentato, ma non c’è una sola parola pronunciata sul palcoscenico che sia vera. Nessuna delle battute dette è autentica, ma sono molto plausibili e realistiche.
Amava il mare, amava la montagna. Così come le droghe. Una personalità con delle spinte contrapposte. Fosse nato 20 anni dopo avrebbe suonato rock?
Era una persona che amava sfidare i limiti imposti, sociali o “naturali”. I suoi amici raccontano di quando saltava sulle alte scogliere della California a picco sull’oceano, e tutti dietro gli urlavano di farla finita, che si sarebbe ammazzato, ma lui niente, non li sentiva nemmeno. Nella pièce riportiamo di un fatto realmente accaduto: voleva arrivare con una piccola imbarcazione a Santa Catalina, un’isola a 40 miglia dalla costa di Los Angeles in piena notte. Lui doveva misurarsi di continuo con la morte per sentirsi vivo. Così almeno ci è parso. La sua disperazione intima era un marchio di fabbrica, per così dire. E’ cresciuto con la figura del padre violento ed alcolizzato, che passava da un lavoro all’altro, cercando di campare la propria famiglia, come meglio poteva. Vittima della grande depressione, del crollo delle borse. Insomma, il classico piccolo uomo schiacciato dalla Grande Storia. È stato un padre duro, alzava le mani, ma gli ha insegnato ad amare il jazz. Chet ha realizzato il sogno paterno di divenire un jazzista. Non ha mai parlato male di suo padre, in nessuna intervista, neanche con gli amici. In merito al rock? Bhè, se non avesse suonato la tromba, forse sì.
Potete farci anticipazione del prossimo lavoro?
Debuttiamo il 5 febbraio a Padova con “Morte di un commesso viaggiatore” con Alessandro Haber, che arriverà a Roma a marzo presso il teatro Eliseo. In primavera uscirà il film dal titolo “La Rivincita” prodotto da Altre Storie e Rai cinema. Vi aspettiamo fiduciosi.
Vi saluto e vi ringrazio per avermi fatto partecipe dei vostri pensieri e riflessioni.
Barbara Lalle
Maria Teresa Filetici