Affitti brevi Airbnb, il rebus dell’aliquota IVA per l’host

Da tempo, ormai, non si fa che parlare dell’annunciata (finora non ancora arrivata) stretta sugli affitti brevi, nel mirino del Fisco per via dell’alto rischio evasione. Una questione che tiene banco ormai da anni: è stimato che la sola Airbnb valga l’11% dell’ospitalità italiana, ma che le tasche del fisco restino vuote o quasi.

La piattaforma di affitti veloci più famosa al mondo conta, solo in Italia, circa 460mila appartamenti in affitto e un business da 5,4 miliardi. Federalberghi, in pressing da tempo sulla stretta, recentemente ha stimato che solo nella città di Roma ci sarebbero 1,4 miliardi di fatturato “fantasma”.

  E’ durato giusto appena il tempo di salire agli onori della cronaca – subito ritirato – l’emendamento del Pd al dl Milleproproghe che cercava di mettere una serie di paletti agli affitti brevi in Italia, tra i quali l’obbligo da parte dei Comuni di decidere un numero massimo di permessi da concedere a chi affitta, sanciti da specifiche licenze e l’obbligo di possedere la partita Iva per chi affitta più di tre stanze, anche in case differenti.

Per ora nulla di fatto. Dopo il ritiro dell’emendamento al dl Milleproroghe, le norme dovrebbero ritornare in pista all’interno di una riforma più complessiva sul tema con il Governo che lavora al disegno di legge sul turismo collegato alla manovra.

Nel frattempo,  come riporta il Sole24ore, in un articolo a firma Vecchio-Pellegrini, la Corte di Giustizia europea ha chiarito il rebus dell’imposta a carico del cliente dei portali. L’attività posta in essere da Airbnb appartiene alla categoria dei servizi svolti dalle società dell’informazione, con la conseguente applicazione della Direttiva E-Commerce n. 2000/31. I Giudici, infatti, nel ricomprendere l’attività svolta da Airbnb nell’alveo dei “servizi della società dell’informazione”, definiscono la prestazione resa dal portale come “un servizio fornito a distanza e per via elettronica”.

La posizione dell’Agenzia delle Entrate – Allo stato attuale, le prestazioni di servizio svolte dalle piattaforme, in base alle indicazioni contenute nel Working Paper n. 878/2015, sarebbero assimilabili alle intermediazioni (posizione ripresa e condivisa altresì dall’Agenzia delle Entrate nella consulenza giuridica n.954/39/16).

Se i servizi in esame si qualificano come “servizi prestati per via elettronica” – scrive il quotidiano economico – si applica l’articolo 58 della Direttiva Iva e, pertanto, il luogo rilevante della prestazione sarebbe quello in cui il destinatario è stabilito, ha una dipendenza permanente o risiede abitualmente, quindi, per l’Italia, l’ aliquota Iva applicabile sarebbe quella ordinaria del 22%.

Diversamente, se i servizi in questione fossero classificati come servizi di intermediazione, ai sensi dell’articolo 46 della Direttiva Iva, il luogo della prestazione coinciderebbe, con quello dell’operazione sottostante, che, nel caso della fornitura di alloggi, coincide con il luogo in cui è ubicato l’immobile.

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