Debora Villa al Brancaccio fa il tutto esaurito in un tripudio di stereotipi

Intrattiene e diverte per due ore piene Debora Villa con lo spettacolo “Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere”: il teatro Brancaccio è pieno sia in platea che in galleria per l’unica data romana della comica milanese, martedì 4 Marzo.

Con tecnica ed esperienza, la Villa dimostra di essere esperta di palco e risate. Senza interruzione e senza ausilio di video o musiche registrate, tiene su di sè gli occhi del pubblico. Non ha nemmeno scenografie o semplici oggetti con i quali creare situazioni e diversivi. La Villa è lì, senza costumi e costumisti. È in carne ed ossa e solo con quelli compie il miracolo del successo. Ed è stato proprio un successo. Scrosci d’applausi e sganasciamenti degli astanti per lo spettacolo tratto dall’omonimo best seller dello psicologo statunitense John GrayIl tema è quello della coppia, nella sua declinazione più bianca, occidentale ed eterosessuale. Insomma, un tripudio di stereotipi e di cliché nei quali il pubblico, seppur eterogeneo, non fatica a riconoscersi. Anzi si riconosce completamente come se rivedesse se stesso in uno dei video salvati sul cellulare. È tutta una risata e una proiezione. È più interessante osservare a livello antropologico lo spettacolo del pubblico che a livello artistico quello della Villa.

La formula “Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere” è quella del one man show, anzi del one woman show. Con un fare da cabarettista inscena delle finte conferenze ed interagisce con il pubblico che senza pudori e timori, risponde alle domande, alza le mani, partecipa ad atti psicomagici in bilico tra Giucas Casella e Alejandro Jodorowsky, financo sale sul palco per esser cavia. Debora Villa fa sfoggio della sua gavetta ventennale ed il pubblico gradisce. Fin qui andrebbe tutto bene se non fosse per il contenuto così antievolutivo da essere preoccupante. Da una parte l’uomo, la sua sequenzialità, i suoi silenzi e dimenticanze, dall’altra la donna, il suo essere multitasking, la sua chiacchera ai limiti della logorrea e la sua instabilità emotiva. La donna viene descritta come un’onda e come tale con comportamenti ed umori bipolari. Insomma, la cara vecchia immagine isterica. La donna, nel punto più basso della curva periodica e sinusoidale, scende negli inferi, incontra il demonio e lo mette in fuga, prendendo la sua voce. La Villa che parla un paio di volte campionata con la voce di Satana, mette in scena una gag di grande riuscita se non fosse fortemente fuori luogo accostare la figura femminile a qualcosa di sinistro. Insomma, non si ascolta niente di nuovo: donna ferale e strega infernale. Malgrado loro stessi, gli astanti si riconoscono e ridono tanto. Dispiace che ancora ci si riconosca in Barbie e Ken, nel sole e nella luna, in Marte e Venere. Della modernizzazione dei costumi giusto un accenno; anche le e gli omosessuali vengono descritti attraverso cliché: per gli uomini sesso veloce ed ormonale, per le donne mal di testa e film curdi sottotitolati in pakistano.

Sciocca e scontata narrazione e fin qui… l’apice si tocca quando ai saluti finali, la Villa tira fuori un paio di scarpe rosse con i tacchi, simbolo della lotta al femminicidio nato da una idea di Elina Chauvet, l’artista messicana ormai famosa nel mondo per Zapatos rojos, l’istallazione divenuta il simbolo della lotta alla violenza sulle donne. Momento di commozione. La Villa ci racconta di come le donne siano delicate, vadano protette e non si tocchino nemmeno con un fiore. Ecco, sono proprio le parole del patriarcato.

Barbara Lalle

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