Serve un nuovo senso al nostro fare

Le fasi di crisi accelerano i processi e svelano le qualità sottostanti. È in queste ore, drammatiche per l’intero pianeta e la storia contemporanea, che le faglie sottostanti alla superficie si rivelano con tutta la loro forza. Non un elemento della vita che l’uomo ha costruito – giungendo a occupare tutti gli spazi disponibili, trasformando materia inerte e materia vivente in merci da scambiare sul mercato, fino a candidarsi a riscrivere la stessa evoluzione della vita sul nostro pianeta – sembra poter rimanere in piedi. È bastata la capacità autoreplicante di una sequenza di atomi assemblati in una certa maniera, un frammento di capacità organizzatrice che non possiede neanche la complessità di una singola cellula vivente, a scardinare un sistema che ritenevamo egemone sul pianeta.

È sulla qualità di questo sistema che occorre ragionare, più che sulla quantità di risorse che servono a farlo funzionare. È sulla sua fragilità intrinseca, sulle diseguaglianze interne che ne minano la stabilità sociale, è sul “consumo globale ogni 100 giorni del suo motore”,  che l’umanità dovrebbe ragionare.

L’operazione necessaria, oggi durante l’emergenza, è duplice: da un lato garantire la sopravvivenza – sia sul piano sanitario, sia sul piano sociale – e, dall’altro, utilizzare le risorse, che dovranno essere erogate, per modificare questo sistema, orientarlo verso altri esiti, indicando una via di uscita strutturale dalla crisi. Quello che serve oggi è un governo della Transizione.

Per fare questo, è necessaria coerenza nell’indirizzare le risorse disponibili. Non serve lavorare a far uscire dell’acqua da un vascello se la falla consente l’ingresso di una quantità maggiore di acqua al suo interno. Servono interventi per far uscire dell’acqua e interventi per riparare la falla. Nel caso delle nostre società, forse, le cose potrebbero essere ancora più semplici: la distribuzione delle risorse necessarie per sopravvivere oggi possono e devono essere connesse ai cambiamenti necessari a far transitare il nostro paese, l’Europa e, almeno in prospettiva l’intera società umana, verso una formazione economico-sociale differente, più equilibrata nella distribuzione delle risorse, più compatibile con i cicli vitali, più consapevole della interdipendenza del destino di ogni umano dal resto della società.

Per questo dobbiamo, almeno per il nostro paese, lavorare su più fronti, sfruttando tutte le potenzialità delle conoscenze e delle tecnologie oggi a disposizione. Serve la capacità di affrontare l’emergenza orientando la fuoriuscita dalla crisi verso un modello diverso del fare, una completa riorganizzazione, un reset. Non si esce da questa crisi con la logica degli anni ’30 del secolo scorso: ri/mettere in moto l’economia inondandola di risorse lasciando fare gli spiriti animali, ma avendo la capacità di far emergere gli spiriti sociali e cooperativi, gli unici che siano in grado di reggere la sfida della complessità delle società contemporanee.

La qualità di questi interventi non deve disperdersi per la loro urgenza. Non dobbiamo nasconderci, per interessi di parte, dietro l’urgenza per tornare a fare ciò che facevamo in passato. È la storia stessa dell’umanità in gioco. Allora, ad esempio, servono interventi urgenti a sostegno della vita materiale delle persone. Ampie aree del paese risultano sull’orlo del collasso. Occorre un intervento urgentissimo. Ma non possiamo intervenire con le logiche burocratico-amministrative del passato. Non possiamo permetterci che, ad esempio, l’INPS non abbia costruito – in quasi un mese – l’apparato burocratico necessario per l’emissione dei sussidi (per cui le persone non sanno ancora non solo se saranno beneficiarie dei 600 euro, ma anche cosa dovranno fare per incassarli e quanto tempo sarà necessario per averli a disposizione) e non possiamo neanche nasconderci dietro il fatto che questi provvedimenti coprano solo le fasce “garantite” da una delle mille forme contrattuali che abbiamo prodotto, in una giunga inestricabile di condizioni e trattamenti. Drammatico è il silenzio, il gap di rappresentanza, del mondo sindacale, che ha alzato forte la voce e l’ha fatto giustamente, fino a minacciare uno sciopero generale in una situazione difficilissima, per i lavoratori costretti a lavorare in condizioni di pericolo senza tutela, ma restano silenti e impotenti davanti al dramma del lavoro precario e nero – quello supersfruttato – che tutti hanno dato per scontato e ineliminabile in questi anni. Il richiamo di Mattarella all’Europa per assumere nuove logiche di intervento, vale anche per l’Italia. Occorre rigirare le logiche di funzionamento. Ad esempio, andrebbe garantito a tutti i cittadini un sussidio immediato e incondizionato. Anche generoso, ad esempio 1000 euro. Queste risorse, però, non dovrebbero solo essere pensate in termini disopravvivenza, di “sostegno alla domanda” (cosa che in molti casi è necessario per impedire il collasso e le rivolte), ma avere un senso di marcia per lavorare su più fronti. Potremmo dire che, a fine anno, il cittadino che è sotto i 20.000 euro di imponibile non dovrà restituire nulla. Dai 20.000 agli 80.000 potrà utilizzare quei soldi entro il 2020 per iniziare lavori di ammodernamento sostenibile della sua casa, lavorando ad un grande piano di riduzione del fabbisogno di petrolio attraverso la generazione di una produzione diffusa e intelligente dell’energia per uso domestico. Sopra gli 80.000, quelli che già sanno che manterrano tale condizione per il 2020, dovrebbero non usufruire dell’opportunità o restituire le risorse a dicembre con un acconto IRPEF. Oppure potremmo giustificare tale sostegno per attività di generazione di “centri locali di lavoro intelligente” in grado di offrire lavoro, qualificato e garantito, alle società che necessitano di una riduzione dei costi e di flessibilità lavorativa, garantendo, al contempo, una tutela sociale per queste forme di lavoro digitale e meno alienate del lavoro a casa, ma più sostenibili in termini di spostamento cittadino.

Potremmo utilizzare quelle risorse per generare forme di scambio di servizi a livello territoriale attraverso la potenza di nuove piattaforme generate dalle comunità locali e gestite attraverso le amministrazioni, che inizierebbero un loro “riforma” e un cambio di ruolo, tornando ad essere “al servizio” e non un appesantimento e un costo. Riducendo lo spazio di queste multinazionali globali che “sfruttano la collaborazione sociale” trasformandola in lavoro precario e sottopagato. Tutto questo accompagnato da una “misurazione” extra-mercantile e fuori debito con una criptovaluta sociale.

Insomma, l’inefficienza del modello organizzato dagli spiriti animali è ormai incompatibile con la possibilità di vita sul pianeta e serve una nuova logica del fare. Tornando al sussidio dei 600 euro, ad esempio, la colpa del ritardo non è imputabile al Presidente dell’INPS, ai suoi dirigenti o ai lavoratori in “smart working”, ma alla “logica” di funzionamento della nostra Pubblica Amministrazione, alle sue ottocentesche regole e procedure, all’ideazione delle forme di controllo e verifica che tolgono serenità nello svolgimento delle funzioni. Queste forme non sono più solo un disservizio e un costo insopportabile, socialmente ed economicamente: nell’era della digitalizzazione del fare umano, della sua velocità, dell’interconnessione tra sistemi, rappresentano un rischio per la stessa sopravvivenza della nostra società.

Tutto questo, che ho appena accennato come esempio – ma che potrebbe essere esploso per tutte le dimensioni sociali, come sul tema del debito personale, quello sociale e delle aziende, per la trasformazione del modello produttivo, dei suoi indirizzi e delle relazioni sociali connesse e che dovrà riguardare la logica di funzionamento del settore della ricerca, della formazione, della sanità, la ridefinizione delle infrastrutture strategiche che una collettività deve avere garantite “a prescindere” e che devono essere pubbliche e universali –  necessita di una nuova idea di “Stato Sociale”, un modello che io chiamo Welfare delle Relazioni, proprio perché tutto è connesso e non può più funzionare come prima. Ed è questo modello che può ricucire il nostro paese e lavorare per chiudere la Questione Meridionale. Serve un nuovo senso al nostro fare e questa tragedia deve essere l’occasione per ritrovarlo in Italia dimostrando, concretamente, che si può e si deve fare anche tra i popoli in Europa e nel mondo ormai unificato dall’umanità.

Per questo serve anche un processo di ripartenza. La nostra società necessità di soluzioni, prospettive e di togliersi il peso dei decenni che abbiamo alle spalle. Ogni grande cambiamento parte dal riconoscimento dei propri errori e delle proprie pigrizie. Ma anche dalla voglia di ricominciare tornando a fidarsi dell’altro che abbiamo accanto e ripartire.

Fu così che fecero i padri della nostra Repubblica davanti a devastazioni e colpe ben più grandi. È così che dovremmo fare noi, ma serve una classe dirigente nuova, come accadde a quel tempo

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