Nella sua Historia Langobardorum, Paolo Diacono racconta che “i longobardi lasciarono la Pannonia con mogli, figli e bagagli per occupare l’Italia. La loro permanenza in Pannonia era durata quarant’anni: ne uscirono nell’aprile del 568, e precisamente il 2 aprile, giorno successivo alla Pasqua. Durante il viaggio molti altri popoli si unirono ai Longobardi. Alboino, senza incontrare alcun ostacolo, entrò nel Veneto e occupò il castello di Forum Iulii (Cividale del Friuli) e pensò di lasciarvi un duca (suo nipote Gisulfo). Gisulfo dichiarò che non avrebbe accettato l’incarico se prima non gli fosse stato concesso di scegliere personalmente le fare che dovevano fermarsi con lui; la sua richiesta fu accolta. In conseguenza di ciò ebbe il titolo di Duca e Alboino esaudì generosamente anche la sua richiesta di una mandria di buone cavalle. Alboino in breve tempo conquistò Vicenza, Verona e le altre città del Veneto eccetto Padova, Monselice e Mantova. Dopo aver invaso la Liguria (comprendente anche all’attuale Lombardia occidentale), Alboino entrò in Milano il 3 settembre 569. Poco dopo conquistò tutte le città della Liguria eccetto quelle che si trovano sulla costa. Nel frattempo Ticino (Pavia) che era assediata ormai da tre anni, continuava a resistere. Alboino allora fece avanzare i soldati e occupò tutte le città della Tuscia, eccetto Roma e Ravenna e qualche altra fortezza che pure si trovava sulle coste. Infine dopo tre anni e alcuni mesi di assedio, Ticino si arrese ai Longobardi”.
Quindi, stando al racconto storico, quella organizzata Alboino è nei fatti la Gita di Pasquetta più riuscita nella Storia: i longobardi rimasero in Italia per altri cinque secoli circa, anche se dopo il 774 furono “relegati” solo nel Ducato meridionale di Benevento. Ma quali furono i segreti del successo? Tutti sappiamo che organizzare una gita fuori porta il giorno successivo alla Pasqua diventa una grande impresa se vogliamo coinvolgere più di quattro amici: come ha fatto invece Alboino ad organizzarne una coinvolgendo un numero impressionante di persone, tra l’altro di etnie diverse, che qualcuno stima in un numero non inferiore alle duecentomila unità, a cui dobbiamo aggiungere almeno altrettante bestie da pascolo?
Per saperlo dobbiamo partire da molto lontano.
Nella prima metà del VI secolo il gruppi di Longobardi si erano stanziati nella Pannonia e qui nel 547 strinsero un patto di Alleanza con Giustiniano e divennero federati dell’esercito Bizantino. Da quel momento in poi l’alleanza e sopratutto la militanza nelle fila bizantine, contribuirà ad un ulteriore trasformazione della gens Longobarda. Diversi aneddoti testimoniano come i Longobardi si distinguessero in maniera evidente da altre stirpi germaniche, e dobbiamo rintracciare in questo preciso periodo l’adozione di nomi e istituzioni che i Longobardi si diedero e che portarono con loro nella discesa in Italia.
Se seguissimo alla lettere le parole di Paolo Diacono, l’insediamento Pannonico sarebbe un altro tassello della peregrinazione del suo popolo, una storia che ovviamente ebbe dentro l’influsso mitico della provvidenza divina, pagana e cristiana. Tuttavia noi sappiamo che a permettere lo stanziamento furono gli eventi successivi al disfacimento del multietnico impero di Attila e la conseguente politica Bizantina nei confronti dei popoli delle steppe e di quelli di stirpe germanica. In particolare sarebbe molto interessare puntare l’occhio su come i Longobardi fossero riusciti a costruirsi un identità solida, assorbendo principalmente gli elementi dominanti dei popoli con i quali o venivano in contatto o che sottomettevano. In particolare l’elite dominante Longobarda, che i Italia sarà rappresentata dalle figure dei Duchi, sarà il risultato di questa osmosi culturale.
Mentre Bisanzio attuava il titanico disegno di Giustiniano di ricostruzione dell’Impero Romano d’Occidente, le popolazioni federate ebbero un ruolo preminente su diversi campi di battaglia, specialmente nella guerra in Italia contro il regno degli Ostrogoti. Nella guerra gotica di Procopio vengono menzionati spesso gli Unni, o addirittura gli Slavi, e infine troveremo i Longobardi come protagonisti delle ultime battaglie contro la resistenza gota. Le popolazioni della steppa e germaniche costituivano da molti secoli l’ossatura della macchina da guerra dell’Impero Romano, Bisanzio fece tesoro delle politiche di “dividi et imperat” riuscendo a creare un delicato ed instabile equilibrio tra le popolazione della zona pannonica e danubiana. Questo equilibrio poggiava su tre principi fondamentali: il primo era la continua conflittualità tra le varie popolazione di modo che non emergesse mai un gruppo abbastanza potente da poter egemonizzare sulle altre genti; il secondo un articolato sistema di tributi e donazioni cospicue che le casse imperiali faceva a queste popolazioni e spesso l’abbassamento o l’alzamento di questo tributo aveva lo scopo di fomentare l’aggressività dei diversi popoli; terzo e più importante nessuna tribù, stirpe o gens durava per sempre, ogni popolazione poteva e doveva essere sostituita non appena perdeva di utilità, o ancora meglio quando se ne presentava l’occasione.
Nel 562 un orda di cavalieri nomadi, gli Avari , comparve oltre il confine del basso Danubio. All’epoca l’Impero doveva confrontarsi con il totale dissesto economico in cui era stato ridotto dall’ambizione di Giustiniano e poi le numerose guerre che si combattevano incessantemente su più fronti. In tutto questo scenario le scalpitanti popolazioni pannoniche erano probabilmente una terribile spina nel fianco, alla quale la comparsa degli Avari avrebbe potuto porre rimedio. Bisanzio stipulò un rapporto federativo con i cavalieri della steppa con la “possibilità” di insediarsi in Pannonia, a patto ovviamente di pacificarla. L’insediamento pannonico dei Longobardi è intriso della fortissima conflittualità con i loro vicini, i Gepidi. Questa conflittualità esplose in numerosi conflitti che però non videro mai un reale e totale vincitore, molto probabilmente l’equilibrio venne mantenuto anche e sopratutto dai tributi che l’Impero versava. Nel 565 il nuovo imperatore Giustino II decise di non pagare più alcun tributo a nessun popolo barbaro, distruggendo in pochi anni il delicato equilibrio della regione danubiana e pannonica. Questo comportamento da parte dell’Imperatore sembrò riconducibile al fortissimo astio che l’aristocrazia greca nutriva nei confronti delle popolazione “barbare”, Giustino II aveva fatto carriera degli ambienti di corte e ne era a tutti gli effetti un esponente di spicco. Oltre all’astio politico le casse dell’Impero erano di fatto vuote e nella mente poco lungimirante di Giustino il taglio ai tributi dovette sembrare la soluzione più giusta, ma a lungo andare questa decisione si rivelò una catastrofe.
Private del tributo, infatti, le popolazioni barbare non avevano alcun interesse a combattere per l’Impero per cui incominciarono a caldeggiare altre possibilità ed opportunità, sopratutto in un momento in cui quello stesso Impero che rifiutava loro i tributi era in una posizione assolutamente precaria. In Pannonia la guerra tra Gepidi e Longobardi si riaccese in maniera ancora più accanita, in quanto si giocava una lotta per la sopravvivenza nell’immediato futuro.
In quel momento i Longobardi avevano da poco eletto il loro decimo re: Alboino, talentuoso guerriero nonché appartenente alla nobile stirpe dei Gausi. Alboino ebbe la lungimiranza di intavolare trattative politiche con gli Avari, poiché a loro era stata promessa la Pannonia, il re Longobardo si offrì di lasciargliela in cambio del loro aiuto nella guerra contro i Gepidi. Paolo Diacono racconta con molta enfasi la vittoria totale della coalizione Longobardo-Avara e il conseguente annientamento della stirpe dei Gepidi, i cui superstiti furono costretti o ad arrendersi ai Longobardi o ad asserviti agli Avari che divennero i nuovi signori della Pannonia.
A tal proposito Paolo Diacono racconta che “morto Audoino, i longobardi non esitarono ad eleggere all’unanimità Alboino, che fu così il loro decimo re. La fama del suo valore, del resto, si era sparsa dovunque e lo stesso re dei Franchi Clotario, volle avere l’onore di dargli in sposa sua figlia. Nel frattempo era morto il re dei Gepidi, Turisindo, e il suo successore Cunimondo, desideroso di vendicare le antiche offese, aveva rotto l’alleanza con i longobardi, preferendo la guerra alla pace. Allora Alboino strinse un’alleanza perpetua con gli Avari e si accinse a combattere. Mentre i Gepidi incalzavano da ogni parte, gli Avari invasero il loro territorio, secondo gli accordi stretti con Alboino. A questa notizia Cunimondo, vedendosi assalito da ambedue le parti, si sentì perduto: tuttavia esortò i suoi uomini ad affrontare per primi i longobardi. Attaccò dunque battaglia con tutte le sue forze, ma alla fine venne sconfitto dai longobardi, che fecero una tale strage di Gepidi da lasciarne in vita uno solo perché andasse a riferire l’esito della guerra. In questa battaglia Alboino stesso uccise Cunimondo e con il suo cranio si fece una tazza per bere. Fece inoltre prigioniera sua figlia Rosmunda, insieme ad un gran numero di persone; in seguito la prese in sposa, e fu la sua rovina, come si vedrà. Si narra che durante il suo regno furono fabbricate armi di tipo particolare”
Il grande storico longobardo però non dice cosa lo spinse esattamente a muoversi verso l’Italia. Dobbiamo inoltre sottolineare che nel suo racconto Paolo Diacono omette che due anni prima della battaglia finale contro i Gepidi, databile secondo il professore Marcello Rotili al 567, i longobardi erano stati sconfitti dai Gepidi, aiutati in questo dai bizantini; né chiarisce quali fossero i risvolti degli accordi tra Alboino e gli Avari.
E’ ancora in dibattimento la motivazione che spinse la migrazione dei Longobardi, tuttavia è ben chiaro che la mal gestione degli equilibri pannonici e danubiani fu uno degli elementi principali. Di fatti la narrazione complottistica, che vorrebbe imputare al vecchio generale Narsete la chiamata dei Longobardi in Italia per vendicarsi di essere stato “licenziato” dai bizantini e di aver dovuto abbandonare la guida dell’esercito è una teoria che ha perso molti seguaci, benchè rimanga affascinante tale narrazione, sopratutto negli aneddoti raccontati da Paolo Diacono. Di fatti per quanto vi fossero forti contrasti tra Narsete e Giustino II, il vecchio generale non si pose in aperto contrasto con gli uffici imperiali e in oltre contrasto qualsiasi ribellione da parte di truppe germaniche che si verificarono negli anni successivi al conflitto contro i goti e poi contro i franchi. In oltre l’ipotesi romanzesca del tradimento mal si accorda con i funerali di stato che furono organizzati per Narsete, il quale venne sepolto con tutti gli onori e in altre fonti non troviamo alcuna traccia che dimostri la veridicità di questo complotto.
Una teoria più recente potrebbe accordarsi meglio con i romanzeschi eventi del 568. Alboino era sicuramente informato della situazione in Italia, i lunghi anni di guerra avevano coinvolto anche e sopratutto i Longobardi, oltre tutto la maggior parte delle città della pianura padana erano di fatto protette da federati germanici con i quali gli stessi Longobardi avevano molto probabilmente militato in guerra. La prospettiva di insediamento in Italia divenne molto più appetibile proprio all’avvento dei nomadi Avari. Di certo possiamo affermare che Alboino chiede l’intervento degli Avari in virtù della recente sconfitta subita contro Gepidi e bizantini, avvenuta nel 567, inoltre possiamo supporre che negli accordi ci fosse la spartizione dei territori gepidi, perché altrimenti sarebbe inspiegabile l’intervento avaro. Infine, occorre ricordare che soltanto un anno dopo la trionfale vittoria sui Gepidi, Alboino decide di dare avvio alla migrazione di massa verso l’Italia, per cui non è da escludere che nei patti ci fosse la cessione del territorio longobardo agli Avari stessi. Nel 568, infatti, i longobardi valicano le Alpi Giulie e penetrano in Friuli utilizzando ciò che restava delle strade romane.
L’accordo con gli Avari siglato da Alboino denota un calcolo politico da parte dal re molto accurato e bilanciato. La fine dei Gepidi permise ad Alboino di acquisire una fama e un prestigio formidabile, oltre tutto i rapporti con gli Avari scandirono anche possibilità future di reciproca collaborazione e per finire la vittoria permise ad Alboino di legare a se altri gruppi minoritari associandoli ai Longobardi, come nel caso dei Sassoni.
Il prestigio acquisito doveva essere mantenuto. I Longobardi non avevano mai avuto una monarchia stabile e non avevano mai avuto buoni motivi per cementificarne una, per cui il potere di Alboino si poteva basare solo ed esclusivamente sulle sue reali capacità di capo militare e guida politica. Una nuova casa per il suo popolo, più fertile e più stabile avrebbe dato ad Alboino ed i suoi successori tutto il prestigio necessario per consolidare la propria stirpe. D’altra parte la completa chiusura da parte dei Bizantini non lasciava altra scelta a questi popoli che erano vissuti sempre nei meccanismi federativi, se non quella di agire in totale autonomia, non aveva senso scontrarsi con Avari per la Pannonia ed aveva ancora meno senso attendere i capricci della corte di Costantinopoli.
Quando tuttavia i Longobardi dilagarono nel Nord Italia, Narsete non ne fu certo felice. I nuovi arrivati non erano molti e probabilmente solo una piccola parte di essi erano guerrieri, tuttavia l’Italia versava in condizioni disastrose e un nuovo conflitto non era di certo la prospettiva più allettante. Molto probabilmente Narsete tentò di disciplinare l’insediamento dei Longobardi e potrebbe aver anche ipotizzato di usarli come argine delle bellicose ambizioni dei Franchi. Ma quando il vecchio generale venne sostituito dal nuovo prefetto Longino, le cose presero una ben diverse piega politica. Longino era stato scelto dall’Imperatore Giustino II e probabilmente ne condivideva tutte le idee politiche, per cui alla diplomatica dialettica di Narsete si sostituì una fortissima chiusura politica ed un atteggiamento fortemente ostile nei confronti dei Longobardi.
La spedizione in Italia di Alboino non fu una grande impresa militare, nelle righe successive vedremo in dettaglia alcuni aneddoti di tale impresa, ma di fatto in molti casi le città si arresero senza combattere.
Prima di partire, Alboino invitò i Sassoni ed altri popoli ad unirsi alle sue schiere e strinse un patto con gli Avari in base al quale quest’ultimi si impegnavano ad accogliere di nuovo i longobardi qualora la loro impresa fosse fallita. Si tratta di un vero e proprio esodo. Secondo il professore Marcello Rotili “Alboino era a capo di un grande esercito a dominanza longobarda formato anche da un’aliquota degli sconfitti Gepidi e inoltre da Bulgari, Unni, Sarmati, Sassoni, Turingi, Svevi e Romani delle province danubiane; alla spedizione, seguito dalle cospicue mandrie, partecipava l’intero popolo: probabilmente meno di 200.000 unità, un numero non trascurabile considerato che la presenta degli Ostrogoti in Italia è stimato poco più della metà, o, forse, qualche decina di migliaia in meno”.
Ancora una volta il popolo longobardo si autodefiniva come un’aggregazione sociale su base militare, stavolta su larga scala. La conquista del bottino dei Gepidi e la fama di invincibile condottiero acquisita da Alboino devono aver avuto un effetto calamita sulla spedizione.
Jarnut, uno dei massimo conoscitori della storia longobarda, stima tra 100.000 e 150.000 l’esercito di Alboino, di cui almeno 20.000 Sassoni, che però ritorneranno in patria qualche anno dopo. Spalmando questa popolazione sul territorio italiano e considerando che i duchi che eleggeranno Autari erano 35, a cui corrispondono eguali città, e stimando in almeno un centinaio gli avamposti strettamente militari ne consegue che ogni corte urbana longobarda doveva ospitare duemila longobardi, di cui un 5% circa costituito da élite militare che andrà ad occupare i luoghi di prestigio e maggiormente difendibili di ciò che resta delle città romane.
Quando Alboino decide di invadere l’Italia, la società longobarda è ormai guidata da una ricca e rampante aristocrazia militare, arricchitasi coi bottini dei popoli sconfitti nelle guerre precedenti e fiduciosa nella propria capacità di conquista. Attorno a questa sorta di oligarchia militare, portatrice e incarnazione della “tradizione nazionale”, si raduna il resto della popolazione, secondo il principio indoeuropeo del “seguito”, ovvero della dipendenza di natura militare e parentale, un seguito che i longobardi definivano appunto “Fara” e che era “un’associazione in movimento”, o meglio “una comunità in viaggio dei guerrieri e del loro seguito familiare”. Composta da diversi nuclei familiari, legati tra loro dalla convinzione in una discendenza comune, ogni Fara poteva raggiungere le centinaia di persone (tra 200 e 500 persone secondo una stima), dato che era comunque un’associazione aperta, per quanto i gruppi parentali fossero chiusi e legati alla “linea” di sangue.
Innanzitutto la Fara è composto da longobardi armati, tra i quali vi era comunque una sorta di differenziazione, per cui gli “arimanni” potevano essere ricchissimi ma anche nullatenenti, ovvero possessori solo del proprio scramasax e della lancia con cui partecipare all’assemblea militare che era considerata la massima espressione della rappresentanza nella società longobarda, e forse è anche per soddisfare la sete di ricchezza della gioventù militare che Alboino si lancia alla conquista dell’Italia.
Nella Fara, al seguito dei capi militari necessariamente vi devono essere anche uomini non armati, che non sono considerati membri della “nazione longobarda” ma che costituiscono un importante elemento dell’organizzazione sociale, una sorta di ceto produttivo che vive in una condizione di semilibertà e che è costituita da popolazione sottomessa nel corso delle migrazioni, un ceto definito “aldes” o “aldiones” nella posteriore tradizione giuridica, che col proprio lavoro libera gli arimanni da qualsiasi occupazione che non sia la guerra. Al seguito dei capi militari, da definirsi appunto come “capifara”, vi sono infine gli schiavi, persone adibite a lavori infimi ma necessari alla vita quotidiana che di certo devono aver seguito, almeno in massima parte, i propri padroni nella migrazione. Ovviamente nel “seguito” vi sono anche le donne: le mogli degli oligarchi, che senza dubbio vivevano una condizione di agiatezza, almeno a giudicare dai monili rinvenuti; le mogli degli arimanni semplici, che quindi potevano vedere variare la propria condizione economica; le mogli degli aldiones, che facevano parte del ceto produttivo e che quindi erano impegnate nella produzione economica; le schiave, che coi loro compagni condividevano i lavori umili e la condizione di inferiorità. Infine, al seguito vi era anche il bestiame, per cui l’esercito di Alboino era una vera e propria società in movimento.
Ai longobardi, come attestato da più fonti, si uniscono altre decine di migliaia di barbari, tra i quali la percentuale di guerrieri doveva essere ben cospicua, per cui l’impatto sulla lacerata difesa militare bizantina in Italia non poteva che essere dirompente. A questo aggiungiamo che la penisola era stata devastata da una peste nel 566 che aveva falcidiato la popolazione e che tornerà a mietere vittime anche tre anni più tardi.
La migrazione verso l’Italia assume i caratteri propri di una conquista militare: in particolare il saccheggio sembra essere l’unità distintiva delle orde di Alboino e talvolta si ha l’impressione, specie nel caso della formazione dei Ducati di Spoleto e Benevento e di altre imprese di singoli duchi, che il Re non abbia il controllo delle sue truppe, anche alla luce della composizione così varia dell’esercito e del desiderio di conquista e ricchezza che animava l’oligarchia militare, in costante crescita per via delle continue conquiste in Europa.
Il ceto militare, composto appunto dai capifara, definiti militarmente come duces, comprendeva, oltre ai comes, anche i centenari e i decani, che rappresentavano i capi di raggruppamenti militari più piccoli, composti originariamente da cento e dieci unità come suggerito dai nomi, ma è probabile che questo numero sia variato in base alle esigenze e alle possibilità di reclutamento. Questi centenari e decani, una volta terminata la conquista e iniziato il governo del territorio, dovevano presumibilmente presidiare le vaste regioni amministrate dai duchi in forma di Hari-Berg, ovvero di presidi armati, arroccati all’interno di costruzioni pre-esistenti oppure con piccoli accampamenti che poi si trasformano in torri d’avvistamento e costituiranno la base per l’incastellamento della penisola, in particolare nel meridione.
Quando Alboino conquista Cividale del Friuli, lascia la città a suo nipote Gisulfo, già marpahis, ovvero custode dei cavalli regi, insieme ad alcune fare che egli può scegliere tra le tante che compongono il popolo/esercito longobardo. In particolare Paolo precisa che Gisulfo occupa il castello, ovvero la parte più fortificata della città, da dove governare un vasto territorio con la forza delle armi, proprio come nelle migrazioni precedenti. L’assegnazione di Cividale a Gisulfo, ci dice Paolo Diacono viene fatta “secondo la tradizione”, per cui ne deduciamo che per ogni città conquistata i longobardi vi si insediavano al seguito di un Duca che aveva illimitati poteri militari, sottraendo in tal modo alcune Fare al grosso dell’esercito, per cui nel corso dei tre anni e mezzo di conquista militare, il numero dei conquistatori deve essere diminuito di parecchio, dato che ad ogni conquista di un centro urbano o di una fortificazione seguiva l’insediamento di alcune delle Fare dell’esercito.
A Cividale come ovunque, l’oligarchia si rinchiude nel luogo maggiormente fortificato, ereditandolo dalle precedenti guerre o rinsaldando costruzioni distrutte, e attorno a loro la società longobarda si va ad innestare su ciò che resta della precedente organizzazione sociale tardo-antica. In particolare i longobardi già con Alboino sembrano applicare la pratica della hospitalitas ovvero la resa di un terzo dei prodotti da parte dei grandi proprietari terrieri verso gli occupanti, tradizione risalente allo stanziamento dei barbari nell’impero romano, anche se è difficile che tutti i nuovi conquistatori si attenessero alla regola del terzo e non stabilissero la quota a piacere, almeno nella prima fase, anche se lo stesso Paolo Diacono sostiene che i longobardi si attennero al principio del “terzo”. L’assegnazione delle città e delle regioni circostanti ai duchi dell’esercito, quindi risponde a criteri di meritocrazia militare e non a legami familiari, anche se la scelta di Gisulfo potrebbe far pensare al contrario, sarà quindi necessario sottolineare che egli viene scelto perché “marpahis” dell’esercito e non perché nipote del Re.
La quantità di chiese e monasteri distrutti dai longobardi, unica traccia certa della loro fase di conquista, la dice lunga sulle modalità del loro ingresso in Italia. In sostanza i longobardi eliminano il ceto aristocratico pre-esistente, ed in tal senso va letta la distruzione dei centri vescovili, e lo sostituiscono con il proprio ceto militare, lasciando intatto l’ordine sociale. In particolare per il ceto produttivo urbano cambia poco: vengono inseriti nella classe degli aldiones e in molti casi sono soggetti a legislazione romana, pagano più o meno gli stessi tributi che pagavano ai bizantini e gli si riconoscerà il diritto di abbandonare il proprio padrone se non ricevono un trattamento adeguato. Per i grandi proprietari terrieri appartenenti a ciò che resta della società tardo-romana, i quali vivevano ormai da tempo nelle fattorie fortificate, invece la condizione peggiora di molto e degradano anche loro nella classe degli aldi, quando riescono a risparmiare la vita.
Nel loro procedere alla conquista, i longobardi si insediano nei diversi centri di quella vasta regione che diventerà appunto la Langobardia e quindi poco alla volta si sfoltisce l’orda di Alboino e quando questi si ferma a Pavia per farne la capitale del regno appena conquistato, evidentemente, le Fare che ancora non avevano conquistato qualche centro urbano o qualche altro avamposto dal quale sfruttare economicamente le terre circostanti, si lanceranno in altre campagne di conquista con o senza l’avallo del Re. In quest’ottica si spiegano i successivi scontri tra longobardi e franchi e la nascita dei ducati di Spoleto e Benevento. In particolare, come abbiamo visto, la formazione del Ducato di Benevento appare completamente slegata dall’azione politica di Alboino, come se accadesse “a sua insaputa”.