Il petrolio è stato il protagonista assoluto di giornata ieri. La debolezza vista nel corso della giornata è culminata in serata, quando per la prima volta nel mercato dei futures sul petrolio, i prezzi sono capitolati al di sotto dello zero, diventando negativi. Il contratto Wti con consegna a maggio (con scadenza oggi) è precipitato ieri alla chiusura delle contrattazioni sul Nymex di New York, fino al di sotto dello zero, chiudendo a -37,63 dollari al barile. Di fatto significa che i produttori sono ormai disposti a pagare pur di liberarsi delle scorte che non riescono più a immagazzinare.

 Ma l’andamento del prezzo del petrolio, il suo storico crollo in questo caso, non si traduce automaticamente  in ribassi altrettanto forti alle pompe di benzina italiane, come gli automobilisti hanno ormai imparato a riconoscere. Per confrontarlo basta fare due calcoli: tra il 24 febbraio e il 13 aprile, ultima rilevazione disponibile nell’Osservatorio prezzi carburanti del Ministero dello Sviluppo Economico, il prezzo della benzina ai distributori è calato del 7,9%; il prezzo del petrolio, al netto del tonfo di lunedì, è crollato del 43% passando dai circa 50 dollari di febbraio ai 29 della scorsa settimana.

Dietro l’andamento bivalente dei prezzi ci sono alcuni fattori tipicamente italiani. In partenza va considerato che il prezzo del greggio incidente ormai solo marginalmente sul costo finale della benzina, circa un terzo. Il resto? Circa il 50% se ne va nelle accise che nel corso dei vari decenni hanno permesso ai governi di finanziare di tutto, dalla guerra d’Etiopia di epoca fascista alle ricostruzioni post-terremoto. Il 18% va invece nella tasche dello Stato sotto forma di Iva. Va da sé che per gestori e compagnie, alle prese con una crisi di dimensioni devastanti per le auto rimaste in gran parte ferme nei garage, la scelta obbligata è stata quella di ridurre del minimo il costo del carburane per ‘tamponare’ in qualche modo la crisi dei ricavi, applicando quindi ribassi molto più ‘cauti’ rispetto al tonfo della materi prima.

 L’Agenzia Internazionale dell’Energia ha già avvertito nel suo report mensile che la domanda di petrolio del mese di aprile potrebbe essere inferiore a quella dello stesso periodo del 2019 di ben 29 milioni di barili, al minimo dal 1995. E con i depositi praticamente colmi, la domanda è: dove stoccare il petrolio? Non sorprende che ieri i produttori di petrolio siano arrivati al punto tale da essere disposti perfino a pagare i potenziali acquirenti pur di liberarsi dalla zavorra del loro bene fisico, vista la difficoltà a parcheggiarlo da qualche parte. E l’hub di Cushing non è sicuramente l’eccezione che conferma la regola. Problemi di stoccaggio sono stati rilevati anche negli hub dei Caraibi e del Sud Africa, in Angola, Brasile e Nigeria. Depositi anche qui vicini al massimo della loro capacità, che potrebbe essere raggiunto entro l’arco di qualche giorno, visto che tutto il petrolio che doveva essere consegnato, ora le aziende in lockdown non lo vogliono più. Non ora, almeno, visto che le loro attività produttive ed economiche sono finite in quarantena con il Covid-19. L’offerta, insomma è troppa: “L’offerta di petrolio sta minacciando di mettere sotto pressione l’attività di stoccaggio delle prossime settimane, con l’ondata di petrolio crude che non mostra alcun segnale di discesa – ha commentato Robert Yawger, numero uno del dipartimento di energia presso Mizuho Securities USA, in una nota pubblicata nella giornata di lunedì.Secondo l’esperto, se i livelli di stoccaggio del crude continueranno a crescere ai ritmi attuali, le scorte Usa sfonderanno tutti i loro precedenti record nell’arco di due settimane, raggiungendo la capacità massima tra 8-9 settimane.