Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, l’articolo ricevuto da Tartaglia Arte:
Banksy si fa carico di distinguere Bene e Male. Cosa che un artista contemporaneo consapevole non farebbe mai perché mettere sullo stesso piano l’arte con la più cruda delle realtà vuol dire avere capito ben poco dell’arte stessa
Da qualche anno ho una chat con i miei vecchi compagni di classe. Ho confessato a loro che a volte li ascolto per capire il punto di vista di persone distanti dal mio ambiente, che sull’arte di oggi confermano un po’ il sentire del Belpaese: la considerano una specie di intrattenimento, dove quella vera è quella del Passato e quella contemporanea è una strana cosa, fra il po’ troppo difficile e un po’ presa in giro (a parte Banksy). Oltre all’arte, nel gruppo che vive di ricordi, anche la politica non se la passa bene e un giorno uno di loro scrisse: la politica rovina tutto. Pensai subito che avevo fatto bene a seguire la chat, una frase del genere non l’avrei mai potuta nemmeno immaginare.
La motonave di Banksy
La notizia della motonave acquistata da Banksy per soccorrere i “non europei” in mare, pone delle questioni molto interessanti. Banksy è lo street artist più famoso, nonchè il “percepito” artista più conosciuto, capace di avere qualche decina di mostre contemporaneamente in giro per il globo (tutte bollate dal suo sito ufficiale come “fake”) perché riesce ad entrare in ogni cultura con il passepartout di un linguaggio globale alla Robin Hood. Un linguaggio che fa arricciare il naso alla critica e all’arte contemporanea e per cui Banksy è amato da quelli che la comprendono poco. E’ molto interessante vedere che il Robin Hood senza volto abbia fra i suoi maggiori estimatori molti Sceriffi di Nottingham (che hanno organizzato sue mostre, senza il suo consenso, a Roma, Bologna e Ferrara) sia forse perché avere il gusto popolare li seduce, sia perché l’altra arte è troppo complicata. Banksy è la Street Art e per comprendere bene la faccenda vale citare il critico Roberto Ago che scrive in una delle sue pillole su Facebook: “L’arte “degenerata” dei vari Banksy, Kaws e JR segna una nuova secessione estetica non riconosciuta dal sistema dell’arte”. È proprio così, la gente ha eletto lui come eroe, che “combatte per noi contro il potere, il razzismo, l’intolleranza …” dice Vittorio Sgarbi, Banksy è di tutti perché è riconoscibile, è immediato (ma Enrico Franceschini su La Repubblica di domenica scorsa come cavolo fa a dire “…uno degli interpreti più ricchi della cosiddetta arte concettuale…”? Siamo stanchi di gente che scrive di arte che non ne sa). Grande dibattito di questi anni è sicuramente l’arte e la politica; l’artista contemporaneo ora partecipa e fa partecipare, coinvolge, discute dei problemi della società, anche se alla fine lo sa solo il mondo dell’arte coi suoi adepti (e semmai la notizia che “buca” è quella della banana che costa molto) che in fondo non possono essere “urtati” più di tanto perché c’è uno “status quo” da mantenere, una specie di regola non scritta. E chi si può prendere gioco di questo circolo fra il Jet Set e il Radical Chic può essere solo uno che non è un artista, come Banksy, capace di irridere il mondo delle aste, le Soprintendenze e il mercato. Lui è uno street artist: ha un nome finto, non ha identità e non fa quadri, ma dipinge muri perché i muri non si possono portare via, perché la strada è la strada, rifiutando così di produrre il bene da vendere, semmai facendo un negozietto a modo suo, senza gallerie e senza mercanti, anche se, volente o nolente, è diventato ricco. Ricchezza che sembra sopportare male – chi è ricco non può essere sovversivo fino in fondo – e quindi ecco che annuncia “…come molte persone che hanno successo del mondo dell’arte ho comprato uno yacht…”. Solo che questa barca, dal nome strano e raffinato, non serve salatini e cocktails, ma serve a soccorrere i migranti clandestini nel Mediterraneo. Non gli è bastato dipingere il bambino naufrago del muro di Venezia Biennale, ora bisogna andare a prenderlo. Robin Hood tiene per i poveri e chi è più povero degli africani che rischiano la vita per venire da noi? (dal 2013 si stimano circa19mila morti nel Mare Nostrum).
Ma con questa operazione sicuramente meno mediatica, ma più potente del prendere in giro il sistema dell’arte, il nostro fa una bella scelta di campo e di fatto tradisce il suo pubblico. Tradisce perché mette insieme quell’arte (percepita come arte) e realtà, meglio: mette insieme un’arte di successo con un argomento difficile e reietto. “La politica rovina tutto” e Banksy va dritto nella bocca del leone. Tradisce la stragrande maggioranza dei suoi ammiratori perché urta, macchia, più che toccare, la loro parte buona, quella che si commuove, quella del fanciullo che ama la libertà senza tempo, quella contro tutti i poteri, con una cruda realtà che ha già stancato, che sembra senza fine, che tutti vorrebbero fermare o di sicuro regolamentare. Si rompe l’incantesimo e la poesia universale delle sue immagini sterza di brutto e sbatte il muso contro i canotti sgonfi. Il palloncino non vola più, ma diventa un salvagente (a cuore) per corpi scuri che “starnazzano” in acqua. Solo che l’azione della barca, guidata da una tizia tosta chiamata dal nostro, non è una performance, ma è un’operazione umanitaria, proprio come lo sono quelle delle ONG, anche se fatta coi “colori” e i “simboli” di Banksy. Ecco perché Banksy non è un artista, ma rimane uno street artist, perché mescola finzione e realtà senza tanto distinguerle. Scegliendo sempre il Bene contro il Male (oltre che semplice refrain, è anche il mestiere di Robin Hood) Banksy presume così che esista una differenza fra il Bene e il Male saltando a piè pari l’indipendenza dell’arte dall’atto morale. Cosa che un artista contemporaneo consapevole non farebbe mai perché mettere sullo stesso piano o semplicemente sovrapporre, in modo poco chiaro, contaminare, pasticciare quell’arte con la più cruda delle realtà, vuole dire avere capito poco dell’arte stessa. Ovvero avere compreso molto della natura dell’esistenza umana.