Come ha fatto la Cina a sconfiggere il Coronavirus? Il sistema delle 3 T

Mentre il mondo sta affrontando la durissima seconda ondata di Covid, e in Italia il Governo Conte si appresta a varare un nuovo Dpcm che potrebbe portare con sé un nuovo lockdown (c’è da capire se nazionale o localizzato a seconda delle criticità regionali), la Cina è riuscita a sconfiggere il virus.

Proprio lei, epicentro del Sars-Cov-2 con Wuhan, dove tutto è iniziato. Com’è possibile che ora in tutto il Paese, e a Wuhan in particolare, si sia tornati a un’assoluta normalità? E a che prezzo?

Al 4 ottobre 2020, la Cina aveva confermato 90.604 casi di Covid e 4.739 decessi, mentre gli Stati Uniti, per fare un esempio, avevano registrato 7.382.194 casi e 209.382 decessi. Il Regno Unito, che ha una popolazione 20 volte più piccola della Cina, ha visto un numero cinque volte maggiore di casi e quasi dieci di decessi.

Posto che la Cina era in qualche modo pronta ad affrontare una nuova pandemia, la vera ragione, come spiega bene uno studio pubblicato su The Lancet dal titolo ”China’s successful control of Covid-19′, è legata al fatto che il Paese ha un sistema centralizzato di risposta alle epidemie.

La maggior parte degli adulti cinesi ricorda la SARS e l’alto tasso di mortalità che ha generato. La società è da sempre molto attenta a ciò che può accadere in un’epidemia di Coronavirus.

In poche settimane, la Cina ha messo in piedi un efficace sistema nazionale di ricerca dei contatti ed è riuscita a testare con i tamponi 9 milioni di persone per SARS-CoV-2 solo a Wuhan.

La rapidità della risposta è stata il fattore cruciale. I cinesi si sono mossi molto rapidamente per interrompere la trasmissione. Altri Paesi, anche se avrebbero avuto molto più tempo per prepararsi all’arrivo del virus, hanno ritardato la loro risposta e questo ha fatto perdere il controllo.

Com’è successo per la seconda ondata in Italia, dove il sistema di test & tracing è completamente è saltato appena il virus ha iniziato a prendere piede, come ha spiegato bene il presidente della Fondazione Gimbe Nino Cartabellotta in questa nostra intervista.

I primi casi segnalati del Covid-19 si sono verificati a Wuhan, nella provincia di Hubei, alla fine di dicembre 2019. La Cina ha rilasciato la sequenza genomica del virus il 10 gennaio 2020 e ha iniziato a mettere in atto una serie di contromisure rigorose nello stesso mese.

Wuhan è stata posta sotto stretta sorveglianza e il trasporto pubblico è stato completamente sospeso: un lockdown totale durato 76 giorni, che ha trasformato la città da 11 milioni di abitanti in un deserto.

In tutto il Paese sono stati istituiti 14mila punti di controllo sanitari presso gli snodi dei trasporti pubblici. Mascherine per tutti, ovunque. Le riaperture delle scuole dopo le vacanze invernali sono state ritardate e gli spostamenti della popolazione sono stati fortemente ridotti. Decine di città hanno imposto restrizioni anche all’aperto: solo un membro di ogni famiglia era autorizzato a lasciare la casa ogni due giorni per fare la spesa.

Essendo il più grande produttore mondiale di dispositivi di protezione individuale, è stato relativamente semplice aumentare la produzione di camici e mascherine chirurgiche. La mascherina lì la portavano praticamente tutti. In cielo volavano dei droni dotati di altoparlanti che rimproveravano i cinesi che non rispettavano le regole.

Molti dissidenti hanno però anche raccontato e documentato con video che decine di persone sospettate di essere positive sono state prelevate dalle proprie abitazioni, talvolta incatenate per non fuggire, e poi portare via a forza. Tanti collassavano prima, per strada. Una soppressione fortissima delle libertà personali, che però ha portato al contagio quasi zero.

Il 5 febbraio 2020, Wuhan ha aperto tre ospedali Covid prefabbricati all’interno di luoghi pubblici come stadi e centri espositivi e sono stati utilizzati per isolare i pazienti con sintomi da lievi a moderati. I pazienti che hanno iniziato a mostrare i sintomi più gravi sono stati rapidamente trasferiti negli ospedali tradizionali. 13mila posti letto che hanno consentito ai pazienti positivi di non isolarsi a casa, riducendo così il rischio di infezione ai membri della propria famiglia.

Il 10 marzo, gli ospedali Covid non sono stati più necessari. L’attenzione della Cina si è spostato dal controllo della trasmissione locale alla prevenzione della diffusione del virus a seguito di casi importati. Tutti coloro che sono entrati nel Paese sono stati testati e messi in quarantena.

Un’altra ragione del successo cinese è legato alla cultura: gli anziani vivono di norma con la propria famiglia o in case vicine. Solo il 3% di loro è ospitato in RSA, luoghi come sappiamo che sono stati veri e propri focolai nella prima ondata in Italia.

Le azioni di sanità pubblica intraprese dalla Cina tra il 29 gennaio e il 29 febbraio, secondo uno studio, potrebbero aver prevenuto 1,4 milioni di infezioni e 56mila morti. Oggi, in Cina i ristoranti, i locali e i negozi sono pieni, il turismo ha registrato un boom incredibile, la gente si accalca in discoteca e quasi nessuno più porta la mascherina. La vita è davvero tornata alla normalità.

Tutto questo è stato possibile con la strategia delle 3T: testare, tracciare, trattare. Un modello che in Italia è stato usato solo in Veneto e che l’Oms aveva caldeggiato per bloccare i contagi, ma che poi è stato totalmente ignorato.

E dunque: tamponi a tutti non appena c’è un caso positivo; tracciamento automatico dei contatti attraverso la capillarissima presenza di telecamere che registrano da anni spostamenti, comportamenti e dati biometrici, come il riconoscimento facciale, e analisi dei big data attraverso app, incrociate anche con dichiarazioni spontanee dei cittadini. E infine isolamento e trattamento sanitario.

Intanto, Pechino ha autorizzato l’uso di emergenza dei vaccini sperimentali e ha iniziato a somministrare dosi a luglio. Il presidente Xi Jinping ha assicurato che sarà un “bene dell’umanità” e promette di fornirlo anche ai Paesi in via di sviluppo. Xi ha fatto partire quella che negli ambienti internazionali è già stata ribattezzata la “diplomazia del vaccino”.

La risposta della Cina alla pandemia non può essere applicabile a tutti, perché ogni Paese ha il proprio sistema sanitario e la propria curva epidemica. Anche altri fattori come il coordinamento tra i settori governativi e il rispetto civile delle normative possono influire sull’efficacia della risposta.

Difficile dire che ovunque, Italia compresa, saremmo disposti ad accettare un livello tale di controllo per tutelare la salute collettiva, e far ripartire l’economia.

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