I’m no longer here, ribellione a tempo di cumbia

C’è una musica popolare colombiana, la cumbia, nella sua versione più lenta e nostalgica, rielaborata e diventata identitaria nel nord del Messico, la ‘cumbia rebajada’, a fare idealmente da filo conduttore, compagna e voce narrante per le scelte e la ribellione contro una realtà sempre più violenta, dell’adolescente Ulises (Juan Daniel Garcia Trevino) di I’m no longer here (Ya no estoy aquí) di Fernando Frias de la Parra. Il lungometraggio, dopo aver conquistato 10 Ariel Awards (il premio più importante per il cinema messicano) è stato scelto per rappresentare il Paese nella corsa all’Oscar per il miglior film internazionale ed è dato fra i favoriti per entrare in cinquina e conquistare la statuetta.

Tra i primi fan del dramma sociale (disponibile su Netflix), girato quasi interamente con attori non professionisti, ci sono due maestri come Guillermo Del Toro e Alfonso Cuaron che ne hanno discusso in un video disponibile oltreoceano sulla piattaforma. Per il regista de La forma dell’Acqua, I’m no longer here è un film “sull’esilio, che partendo dal particolare diventa universale e può creare una connessione con tutti”.
D’accordo con lui Cuaron, che lo considera un film sulla certezza e la difesa delle nostre identità, e su quanto queste siano basate anche sul nostro aspetto esteriore. E’ una delle ragioni che rende I’m no longer here veramente universale”.

Al centro del racconto, Fernando Frías de la Parra, mette la Kolombia, una controcultura molto popolare, fino a una decina di anni fa (“oggi è quasi del tutto sparita, ha prevalso la globalizzazione, a colpi di rap e reggaeton” spiega il cineasta in un incontro in streaming organizzato da The Wrap) fra i giovani messicani nel nord del Paese. Uno stile di vita e un look costruiti intorno all’amore per la Cumbia rebajada, che prendevano forma attraverso un modo di ballarla, di vestirsi (con lunghe camicie e pantaloni oversize) e di portare i capelli (legati in alto e colorati a ciocche in toni vivi).

Una passione che i ragazzi condividevano in gruppo, estraniandosi da un quotidiano nel quale erano in piena escalation le tensioni nel Paese, con le guerre fra Cartelli, le bande e continue violenze anche della Polizia.
“I ragazzi di cui parlo appartengono a una generazione senza prospettive e trascurata -dice Frías de la Parra -. Sentono il rifiuto della società e condividono un forte senso di appartenenza. Vogliono trovare una propria dignità, riuscire a reinventarsi”. Con questa musica rallentata “è come se si combattesse il tempo che scorre, cercando di far durare di più ciò che si ama, in una realtà che non gli offre opportunità”.

Protagonista della storia, che prende il via a Monterrey è il 17enne Ulises, componente dei Terkos, ‘crew’ non violenta amante della Kolombia. Il gruppo è affiliato, come inevitabile, a una delle gang dei cartelli che difende con le armi il proprio potere in città. Dopo un agguato a una banda rivale, del cui Ulises è considerato parte, a causa di un equivoco, il ragazzo è costretto per salvarsi, a emigrare illegalmente negli Stati Uniti. Arrivato a New York, senza conoscere la lingua e senza soldi, cerca di sopravvivere. Fra i pochi che lo aiutano la 16enne cinese Lin. Anche la realtà della Grande Mela, però, non sembra concedergli nulla, soprattutto perché il 17enne non è disposto a rinunciare alla propria identità. “Ulises in Messico non vuole fare parte della realtà violenta in cui cresce e a New York le sue scelte ne fanno di fatto un ribelle”. Il suo percorso da ‘escluso gli permette di confrontarsi con le proprie emozioni e di andare avanti, verso una nuova fase della sua vita” spiega il regista, che volutamente non ha indugiato sul racconto della violenza nella società messicana: “Più la si mostra più la si celebra, e sempre più autori così saltano su quel treno, pensando sia l’unico. Io volevo percorrere una strada diversa”.

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