Ci sono degli accadimenti che rappresentano delle vere e proprie sintesi di “senso” d’intere fasi storiche. Guardo l’apertura del sito di uno dei principali quotidiani italiani e l’apertura sparata con foto gigantesca è riservata al Gran Premio del Bahrain. Mi dico, sarà la voglia di normalità, sarà il tentativo di catturare un po’ di click (si sa, i giornali sono in crisi…), poi mi viene in mente la nostra piccola Italia, la situazione di questo piccolo (e bellissimo) vascello nelle tempeste della crisi planetaria e mi vengono in mente riflessioni sulla nostra condizione.
Nei primi 5 anni di questo secolo si produceva un passaggio storico (preparato dai due/tre decenni precedenti) che segnerà, nel bene e nel male, lo sviluppo della civiltà umana. Le tecnologie digitali, e l’aumento esponenziale delle capacità di calcolo dei microprocessori, introducevano un cambio di paradigma del fare umano. In pochi anni si svilupparono, nell’inconsapevole acquiescenza dei decisori politici e nell’ignoranza dei rappresentanti sociali, tecnologie e soluzioni che spalancarono ad un vero e proprio salto della società umana. Apparirono, quasi d’incanto per molti, due delle novità socialmente più rilevanti dell’ultimo secolo: le comunicazioni social e gli smartphone. La prima soluzione offriva anche agli analfabeti informatici di pubblicare contenuti in appositi siti (i cosiddetti social), elaborare e produrre testi, video e foto, condividendoli, con un semplice click, con una rete di connessioni praticamente mondiale. La seconda, di rendere ubiqua questa capacità elaborativa e l’accesso ai contenuti e ai servizi del web.
Il salto, però, non riguardava solo il livello dell’economia detta immateriale e il nostro paese rappresenta la sintesi di chi non comprese quasi nulla di quel passaggio culturale, produttivo, relazionale, aperto dall’affermarsi di quella rivoluzione.
Vogliamo fare un esempio?
Prendiamo uno dei marchi storici della cosiddetta italianità: la Ferrari e la Formula 1.
Per diversi decenni, quelli dell’era meccanica, la genialità, la capacità di governo della filiera ideativa e produttiva del territorio che tanto ha dato alla storia dell’auto, sembrava poter imporre la sua “legge” nel mondo delle corse. La certezza della primazia tecnologica meccanica, però, rese cieca la dirigenza di Maranello. Quando nel 2006 venne introdotto il nuovo regolamento tecnico sui motori e l’importanza della potenza meccanica fu lentamente spostata su quella della intelligenza digitale della gestione del motore, il predominio della Ferrari decadde inesorabilmente e verticalmente. Il passaggio ai motori ibridi, quelli costruiti sulle cosiddette power unit, decretò il definitivo declino del marchio nelle corse, lasciando il predominio alla Mercedes che aveva alle spalle la decisione del governo tedesco di impostare il nuovo modello industriale sulla scelta dei digital twin della famosa Industria 4.0. Insomma, i tedeschi, come tutti gli europei, non avevano compreso fino in fondo la qualità della nuova economia immateriale ma almeno pensarono a come potesse trasformare la vecchia industria per donargli ancora qualche anno di potenza e di capacità. L’Europa, la potente Europa che aveva dominato la produzione delle merci sia per qualità dei prodotti che per le loro quantità, imponendo al mondo anche due guerre “mondiali” per la lotta nell’egemonia dei mercati, non riuscì a comprendere il nuovo che stava arrivando. Quando si è troppo forti in un gioco, talvolta non ci si accorge che gli altri stanno decidendo di andare da un’altra parte a giocarne un altro. E, alla fine, si rischia che quel gioco non interessi più, a nessuno.
È una pena, ogni anno, vedere un marchio storico dell’automobilismo lasciare la strada, e il traguardo, anche a scuderie meno titolate storicamente ma che hanno compreso la qualità nuova dei processi digitali e hanno saputo integrarli nel cuore del vecchio mondo meccanico dell’auto prima e meglio della titolata scuderia rossa.
Accanto a questo, inoltre, è straziante vedere come il circo dell’automobilismo, che nel ‘900 rappresentò il sogno e l’immaginario di intere generazioni, non produca più alcun sussulto emotivo, né nelle gare, né nell’immaginario dei nuovi ventenni. L’era meccanica, l’era sfavillante dei rombi dei motori che rappresentavano il simbolo del nuovo, l’icona di una delle ultime avanguardie artistiche che possano essere definite tali, come il Futurismo, venga avvolta da polvere e ragnatele e consegnata alla Storia come un suo superato frammento.
Il punto è che il nostro paese sembra ancora non essersene accorto, continuando resilientemente, a vivere nell’illusione dei gloriosi anni ’60 o di poter cortocircuitare il tempo e tornare lì. Basta vedere i TG della sera e i perenni servizi su come eravamo e com’erano belli gli eroi e i tempi passati.