Passaggi normativi che suscitano ‘perplessità’, finalità ‘politico-culturali’ altre rispetto alla semplice lotta alle discriminazioni, la possibilità che si profili uno ‘Stato educatore’ in stile totalitario.
Partendo da buone intenzioni, la lotta alle discriminazioni basate sul sesso e sull’orientamento sessuale, le svolge male sul piano normativo. Nel nostro ordinamento – dall’art. 3 della Costituzione alla mitica legge 194 che regola l’aborto – i diritti sono riconosciuti in base al sesso, non in base al genere: basta già solo questo per determinare potenziali cortocircuiti normativi.
Soprattutto è una legge che, sotto le buone intenzioni dichiarate, persegue finalità politico-culturali sulle quali i suoi sostenitori tendono a sorvolare, pur sapendo che esse rappresentano la vera posta in gioco. Mi riferisco all’idea, che attraversa l’intera legge e ne costituisce, per così dire, il cuore ideologico, secondo la quale i tempi sarebbero maturi – sul piano del costume – per lasciarsi alle spalle le differenze tra i sessi naturalisticamente definite a favore delle identità sessuali e di genere soggettivamente percepite e autocertificate. Quello che si prospetta è un vero e proprio cambiamento di paradigma storico-antropologico. Esso probabilmente risponde allo ‘spirito dei tempi’, oltre a rappresentare – come alcuni sostengono – un avanzamento sul piano dei valori e della civiltà. L’importante però è giocare a carte scoperte invece di fare finta che l’obiettivo sia solo la lotta alle discriminazioni. Non è solo una questione di libertà individuali, come si dice, ma di visione della società, di modelli valoriali e di forme culturali. Il che giustifica lo scontro politico di queste ore.
“Quando ci si è resi conto – sulla base delle perplessità e delle critiche avanzate a suo tempo durante le discussioni svoltesi all’interno Commissione Affari Costituzionali – del rischio che semplici opinioni individuali potessero trasformarsi in reati (sub specie di istigazione all’odio) si è introdotta nel testo della legge una bizzarra clausola di salvaguardia che altro non fa che reiterare quel che si trova scritto nell’art. 21 della Costituzione. E cioè che la libera manifestazione del pensiero, in ogni forma, non può essere in alcun modo limitato. Perché in una legge si è sentito il bisogno di ribadire quel che si trova scritto in forma solenne nella nostra Carta fondamentale? Ancor più grave è che in quest’articolo, nel ribadire l’ovvio, si sia introdotto (a questo punto non so nemmeno quanto involontariamente) un inciso a dir poco ambiguo. Nel senso che sono ammesse, si legge, tutte le idee ed opinioni “purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”. Ma chi decide quando idee ed opinioni liberamente espresse possono determinare un concreto ed effettivo pericolo? Ci vuole poco a capire quali margini di discrezionalità, con una magistratura politicizzata in molte sue frange come quella italiana, lascia aperta una simile formulazione.
Aggiungo un argomento logico: un’opinione espressa a titolo individuale non può mai essere discriminatoria nei confronti di una minoranza nella misura in cui un individuo che esprime un’opinione è esso stesso, in quando singolo, una minoranza per così dire assoluta. Qui si parte dall’assunto che un’opinione individuale, che una qualunque minoranza ritenga offensiva o discriminatoria nei suoi confronti, sia tale in quanto rifletto di un sentimento collettivo maggioritario. Ma non funziona cosi.
La legge include un disegno pedagogico, gestito dallo Stato, ben preciso. Si parla della creazione, ogni 17 maggio, della Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia e del ruolo attivo che, nei processi tesi a favorire l’inclusione e le pratiche non discriminatorie, debbono svolgere le scuole. Qui si apre, secondo me, un duplice problema: da un lato, quello relativo all’utilità dell’ennesima Giornata su questo e su quello, secondo un modello pedagogico dall’alto che in prospettiva rischia persino si essere controproducente rispetto agli obiettivi perseguiti; dall’altro, l’opportunità, in senso appunto pedagogico, di affrontare certe tematiche in un’età nella quale si è per definizione psicologicamente vulnerabili. Lo Stato-educatore è un modello totalitario.
La legislazione italiana non è carente nella tutela delle minoranze e nel perseguimento dei cosiddetti reati d’odio. Si rischia su questo versante l’ipertrofia normativa.
Due casi recentissimi parlano in modo molto chiaro, tanto più che le vittime dell’odio sono due esponenti della sinistra: la senatrice Pd Valeria Valente e l’ex deputata dem e storica attivista per i diritti Lgbt Paola Concia.
‘Un appello per cambiare il testo del ddl Zan, sottoscritto, tra gli altri, da molti esponenti Pd, è stato ignorato’, ha ricordato la giornalista, domandando se a Enrico Letta possa piacere che, attraverso l’introduzione delle discriminazioni legate al sesso, ‘le donne vengano intese come una minoranza, quando sono la maggioranza del Paese? O che ai genitori degli alunni non sia consentito di decidere, in base a un sacrosanto principio di libertà, se mandarli o meno al corso di formazione Lgbtq? Religione facoltativa, transcult obbligatorio?’. Poi ha aggiunto: ‘In Gran Bretagna, per esempio, hanno deciso che quei corsi nelle scuole non entrano più, visti i guai che ne sono nati. Per contro nei nostri licei sono in corso grand tour di propaganda alla gravidanza per altri. Già ora. Figurarsi dopo’.
Era stata proprio Paola Concia a sottolineare, tra l’altro, l’inopportunità di inserire nel ddl Zan, ‘nella lista delle categorie meritevoli di particolare tutela le donne, perché non sono una minoranza bensì la metà della popolazione’. Valeria Valente ha, invece, a più riprese sottolineato che utilizzare l’espressione ‘identità di genere cancella tutto, dal sesso delle donne, che per anni si sono battute e continuano a farlo, per rivendicare i loro diritti, alle specificità di omosessuali, trans, lesbiche’.
È stata poi, sempre in questi giorni, la regista Cristina Comencini, tra l’altro madre di Carlo Calenda, ad avvertire sul fatto che la legge accosta inopportunamente a omosessuali e trans non solo le donne, ma anche i disabili. ‘Aprire una discussione su una legge che ha alcuni aspetti controversi non è un attacco a diritti sacrosanti’, ha detto Comencini, dovendo però constatare che ‘dal fronte progressista c’è sordità. Anzi, più che sordità: c’è la volontà di non ascoltare non solo le nostre obiezioni, ma anche quelle di chi per scelta di vita, come Paola Concia e Aurelio Mancuso (ex presidente di Arcigay), è direttamente interessato’.