È una calda domenica sera di primavera al Teatro Biblioteca Quarticciolo in Roma.
Fuori le porte d’ingresso una calca di persone aspetta di poter entrare per assistere a “Graces”. Tanta, tanta gente per vedere lo spettacolo vincitore del Premio Danza&Danza come produzione italiana dell’anno nel 2019.
Tutti pronti per assistere all’opera ispirata dal concetto di bellezza neoclassica di cui il Canova è stato lo scultore più celebre e talentuoso. E da cui Silvia Gribaudi, coreografa di lunga esperienza, si è ispirata per creare questa performance artistica che unisce in sé danza e teatro, improvvisazione e preparazione.
Diciamolo subito, è una performance che si esprime attraverso un linguaggio che esalta il disequilibrio, la sproporzione, la goffaggine intesa come disarmonia delle forme. In antitesi alla perfezione Canoviana che era espressione di una bellezza ideale impossibile da trovare in natura in quanto di per sé imperfetta.
Una performance distopica, dissacrante, assolutamente coinvolgente. Ottima la scelta linguistica dell’inglese, perché “YOU ARE THE POWER”. Dissacrando chi tende a darsi un tono oltre le reali competenze.
In scena i danzatori Sirio Guglielmi, Matteo Marchesi e Andrea Rampazzo e lei la coreografa Silvia Gribaudi.
Capaci fin da subito di farti entrare in un concetto estetico alternativo dove l’espressività degli artisti viene enfatizzata da una mimica arguta e da movimenti del corpo che possono apparire a prima vista scomposti, ma che sono il preludio dell’accettazione di se stessi e del concetto stesso di Grazia.
Interagire con il pubblico non è una velleità, ma lo strumento usato per portarci a ragionare sul senso estetico che per quanto riconducibile a regole canoniche rimane sempre una visione personale. “Taac!” direbbero gli artisti.
Le tante risate sono figlie di un pubblico coinvolto grazie alla sapiente gestione del palco dei performer.
Graces è un opera che non ci si aspetta, che fa uscire lo spettatore dal teatro leggero, sorridente, felice senza capirne il motivo.
Parafrasando la frase cult dell’opera “Thank You Thank you” perché ne è valsa veramente la pena.
Marco Marassi