Il sangue dei sardi ha consentito agli scienziati a scoprire nuove, preziose informazioni sulla genetica e sulla lotta a tumori e malattie dell’invecchiamento. Il progetto si chiama SardiNIA, e ha preso in considerazione il dna di quasi 400 sardi che hanno volontariamente donato il sangue per permettere ai ricercatori di studiare come cambia con l’età, per effetto delle mutazioni che negli anni colpiscono le cellule staminali, alterandone la proliferazione.
Lo studio sul dna dei sardi
La Sardegna in questi giorni è al centro delle cronache per l’invasione di cavallette che sta tenendo col fiato sospeso l’intera regione, ma la pubblicazione dei risultati dello studio su Nature sposta il focus sul contributo fondamentale dei sardi alla ricerca scientifica. La ricerca è stata condotta dal Wellcome Sanger Institute con il Cambridge Stem Cell Institute e l’Istituto europeo di bioinformatica (EBI) che fa capo al Laboratorio Europeo di Biologia Molecolare (EMBL). Per l’Italia hanno invece collaborato i ricercatori dell’Istituto di Ricerca Genetica e Biomedica del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Irgb-Cnr).
I ricercatori hanno spiegato come nel corpo umano la produzione di cellule del sangue – la cosiddetta emopoiesi – sia altamente efficiente per anni, ma sia “inevitabilmente messa in discussione dagli effetti erosivi dell’invecchiamento” e dalle mutazioni del dna somatico. Queste mutazioni possono condurre a un fenomeno chiamato “emopoiesi clonale”, che si sviluppa con l’avanzare dell’età ed è associata a un aumento del rischio di leucemie mieloidi e di altre malattie non ematologiche correlate all’età. E i sardi si sono rivelati il campione ideale per analizzare queste dinamiche, tenuto conto che la Sardegna è una delle regioni più anziane d’Italia.
I risultati dello studio
Per approfondire questo fenomeno, il team di ricerca ha analizzato 1.593 campioni di cellule del sangue di 385 sardi adulti di età compresa tra i 55 e i 93 anni che hanno donato regolarmente, per un lungo periodo di tempo, il sangue. Così facendo hanno tracciato l’evoluzione di quasi 700 cloni di cellule del sangue e dimostrato che il 92% dei cloni è cresciuto con una velocità esponenziale che si è mantenuta stabile nel periodo dello studio.
Dopo avere studiato il comportamento dei cloni in età avanzata, i ricercatori hanno usato modelli matematici per ricostruire la loro crescita nell’arco dell’intera vita umana, e così facendo hanno scoperto che il comportamento dei cloni cambia con l’età a seconda del gene mutato.
I cloni con mutazioni del gene DNMT3A, per esempio, si espandono rapidamente nei giovani e decelerano in età avanzata; i cloni con mutazioni nel gene TET2, invece, appaiono e crescono in modo uniforme nell’arco della vita; i cloni con mutazioni dei geni U2AF1 e SRSF2, infine, si espandono in tarda età con uno dei tassi di crescita più rapidi.
Perché è importante lo studio sul dna dei sardi
“Questi risultati suggeriscono che, sebbene la crescita clonale sia notevolmente stabile in età avanzata, le dinamiche degli anni precedenti possono deviare da questo comportamento, sfidando la premessa che l’idoneità alla mutazione è costante per tutta la durata della vita umana – spiegano i ricercatori – Per provarlo, abbiamo prima tentato di calcolare quando sono stati creati i singoli cloni dell’ematopoiesi clonale, utilizzando una semplice elaborazione di dati retroattiva. Ciò ha portato a età previste alla fondazione clonale, che hanno preceduto il concepimento per un gran numero di cloni, il che implica che la loro crescita precoce debba essere stata più veloce di quella che abbiamo osservato durante la vecchiaia”.
Le differenze legate all’età, secondo i ricercatori, rispecchiano la frequenza con cui insorgono le diverse tipologie di tumori del sangue, e rivelano che le mutazioni associate a una crescita rapida dei cloni causano più facilmente tumori maligni: “Capire perché alcune mutazioni prevalgono nei giovani e altre nella vecchiaia potrebbe aiutarci a trovare modi per mantenere la salute e la diversità delle nostre cellule del sangue”, ha spiegato Margarete Fabre, ricercatrice presso il Wellcome Sanger Institute e l’Università di Cambridge.