Il presidente della commissione Parlamentare antimafia Nicola Morra a Napoli dove nella sede del Tribunale Militare ha assistito all'udienza che vede imputato per diffamazione il maresciallo dei carabinieri Paolo Conigliaro, ex comandante della stazione di Capaci (Palermo) tra il 2013 e il 2018, Napoli, 24 marzo 2021. Conigliaro, dopo aver denunciato "un sistema affaristico politico-mafioso" in seno al comune siciliano di cui propose lo scioglimento per infiltrazione mafiosa tirando in ballo anche alcuni commilitoni, è stato a sua volta denunciato e messo sotto processo per diffamazione militare. ANSA/ CIRO FUSCO

I carteggi inediti di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone direttamente dal Tribunale di Palermo

PAOLO BORSELLINO?

Le Istituzioni non possono e non devono limitarsi alla commemorazione del 19 luglio.

La verità è un filo che tesse relazioni di cura per il diritto al vivere civile, anche a distanza di tre decenni.

A un giorno dalla ricorrenza dell’omicidio del magistrato Paolo Borsellino, il Sen. Nicola Morra, Presidente della Commissione Parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni mafiose, anche straniere, consegna un carteggio degli archivi del Tribunale di Palermo, rappresentante una parte fondamentale della storia dell’Italia. Si tratta del recupero di documenti dimenticati, tre verbali di interrogatorio condotti da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Leonardo Guarnotta.

“Non dobbiamo chiuderci dentro i nostri recinti di omertà, dice Morra, ma aprirci per abbracciare la solidarietà alle persone e alle famiglie vittime delle stragi di mafia e al loro bisogno di giustizia; la missione della Commissione antimafia è di parlare l’unica lingua che è quella della verità e l’invito è il coinvolgimento delle nuove generazioni, per diventare migliori, perché ognuno di noi è chiamato a collaborare”.

In questi ultimi mesi la Commissione ha riportato alla luce una parte importante del lavoro di Borsellino e Falcone.

LINK DEI CARTEGGI INEDITI

https://www.parlamento.it/Parlamento/1327?foto=1113

La storia:

Uno dei delitti più inquietanti e misteriosi avvenuti in Sicilia si consumò il 20 agosto 1977, in località Ficuzza (Palermo), in danno del Colonnello dei Carabinieri Giuseppe Russo, ucciso insieme al professor Filippo Costa.

I documenti pubblicati, accompagnati dagli scritti del Presidente del Tribunale di Palermo, dott. Antonio Balsamo e del consulente della Commissione, dott. Nicola Biondo, concernono tre interrogatori svolti il primo, il 5 dicembre 1984 dai magistrati Paolo Borsellino e Leonardo Guarnotta a Roma, un secondo dal solo Paolo Borsellino a Palermo il 20 dicembre 1984, il terzo, infine, dal giudice Giovanni Falcone, sempre a Roma il 25 marzo 1988.

Dunque, a più riprese, i magistrati siciliani interrogarono le persone che erano state, al tempo, considerate responsabili per il duplice delitto: Casimiro Russo e Rosario Mulé.

Gli interrogatori, svoltisi rispettivamente nel 1984 e nel 1988, erano tesi a fare chiarezza sull’assassinio del colonnello Russo e del professor Costa, dato che i molti dubbi circa la colpevolezza dei presunti autori erano tutt’altro che sopiti.

I Carabinieri del Nucleo investigativo di Palermo avevano nell’immediatezza dei fatti indicato la causale dell’omicidio nell’attività investigativa che il tenente colonnello Russo stava svolgendo in forma privata in merito all’appalto relativo alla costruzione della Diga Garcia, assegnato alla Lodigiani S.p.a. sul quale si erano estesi gli interessi economici dei corleonesi.

L’iniziale pista investigativa veniva abbandonata dopo le dichiarazioni di Russo Casimiro il quale, tratto in arresto per detenzione e porto abusivo di armi, confessava la propria responsabilità nel duplice omicidio, chiamando in correità Rosario Mulé e Salvatore Bonello.

Instauratosi procedimento penale a carico di costoro, gli stessi venivano dichiarati colpevoli e condannati in data 2 febbraio 1982 per l’omicidio del tenente colonnello Giuseppe Russo e del prof. Filippo Costa, con sentenza della Corte d’assise di Palermo, poi confermata nei successivi gradi di giudizio.

Dalla lettura dei documenti, messi a disposizione del pubblico al ricorrere del trentennale della strage di Via D’Amelio, si evince il contributo reso da Paolo Borsellino e da Giovanni Falcone, nel disvelare il processo di depistaggio volto a occultare la responsabilità della mafia corleonese nel duplice omicidio avvenuto a Ficuzza.

Nel dicembre del 1984 il giudice istruttore Paolo Borsellino si era recato presso il carcere di Roma Rebibbia dove aveva ricevuto la richiesta di aiuto di Mulè Rosario, in attesa del verdetto della Cassazione che avrebbe poi confermato nei suoi confronti la sentenza di condanna all’ergastolo per gli omicidi del Russo e del Costa. A tale interrogatorio ne erano seguiti altri che il giudice Borsellino, unitamente all’amico Giovanni Falcone, aveva condotto nella costante ricerca della verità, nonostante le plurime sentenze di condanna intervenute.

Profondi conoscitori della realtà mafiosa siciliana e delle dinamiche che si agitavano al suo interno, i giudici Falcone e Borsellino nutrivano, entrambi, la convinzione che l’omicidio, eclatante manifestazione di forza del gruppo dei corleonesi, fosse una reazione fortemente voluta dal suo capo, Riina Salvatore, a fronte dell’attività investigativa del Russo insidiosamente rivolta verso gli interessi di cosa nostra nel settore economico- finanziario.

L’attività condotta dal giudice Borsellino risponde ad una profonda esigenza di verità che ha caratterizzato l’intera sua esperienza giudiziaria e che ne ha ispirato l’azione, contraddistinta da una costante capacità critica e da libertà intellettuale, svincolata da qualsivoglia logica di pregiudizio o da pericolosi condizionamenti.

La forza interiore ed il profondo rispetto della vita umana di cui il giudice, ma ancor prima l’uomo, si è reso testimone in ogni ambito della sua esistenza, lo hanno portato a non indietreggiare anche a fronte di una responsabilità giudizialmente accertata, restituendo libertà ai tre condannati e consentendo il conforto della verità ai familiari delle vittime.

E’ infatti sulla scorta di quegli interrogatori e delle dichiarazioni acquisite da numerosi collaboratori di giustizia che, quando Paolo Borsellino era stato già designato alla procura di Marsala, Giovanni Falcone riuscì a fare riaprire le indagini, consentendo il disvelamento dell’azione di depistaggio messa in opera per sviare le investigazioni e pervenendo alla revisione del processo ed alla condanna dei veri responsabili.

La Giustizia si è così compiuta dopo un lungo e faticoso percorso al cui esito, i suoi promotori, non hanno potuto assistere perché uccisi dai corleonesi lungo la strada che avevano continuato a percorrere nella ricerca della verità.

Ancora una volta la mafia corleonese ha reagito con estrema violenza alla percezione di una grave insidia alla realizzazione dei suoi interessi. Il pericolo, questa volta, era rappresentato dall’attività del Giudice Borsellino che, nei 57 giorni intercorrenti tra la strage di Capaci e la sua morte, si era dedicato senza riserve ad una coraggiosa ricerca delle ragioni che avevano indotto “Cosa Nostra” a progettare e attuare l’eliminazione di Giovanni Falcone, proseguendo anche quel percorso d’indagine avviato dall’amico e insieme a questi, portato avanti con fermezza e convinzione, che aveva disvelato la presenza di importanti interessi mafiosi  nella gestione degli appalti pubblici.

Ancora una volta il percorso per l’affermazione della verità è stato lungo e faticoso e, nonostante il tempo trascorso non può dirsi ancora concluso. La ricerca è stata compromessa da un’articolata opera di depistaggio, iniziata ancor prima, forse, del drammatico evento di Via d’Amelio: falsi colpevoli, confessioni, ritrattazioni, sentenze di condanna, revisione, assoluzioni, nuove condanne.

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