Lo Schwa/la scevà: il dibattito si acuisce a suon di fascismi. Ma si tratta di fascismo o di linguistica?

La questione è aperta e le visioni sono polarizzate.

La discussione sul linguaggio inclusivo si è rinvigorita di recente con la bocciatura in Senato di un emendamento che raccomandava di inserire nelle comunicazioni istituzionali “formule e terminologie che prevedano la presenza di ambedue i generi attraverso le relative distinzioni morfologiche (…) nel rispetto del principio della parità tra uomini e donne”.
In sostanza è stata bocciata la possibilità di utilizzare il femminile istituzionale, anche se, a onor del vero, basta accedere al portale online del Senato per vedere che in alcuni casi, seppur sporadici, il femminile non è respinto aprioristicamente (cfr. “il sito della Presidente del Senato”).

Altra cosa è il femminile istituzionale, altra cosa è lo schwa.

Attenzione, dunque, a non mettere tutto nello stesso calderone.

La querelle sul linguaggio inclusivo è piuttosto articolata e può essere affrontata con due approcci: un approccio meramente ideologico ed uno più tecnico e linguistico.
Con ciò non si vuole screditare la sociolinguistica che, pur tenendo conto di “fattori umani”, non esclude il rigore scientifico.

Il dibattito su “Ə” ha origine nel 2015, quando Luca Boschetto, autore e non linguista, come specifica egli stesso, pubblica online un articolo: “Proposta per l’introduzione della schwa come desinenza per un italiano neutro rispetto al genere, o italiano inclusivo”; successivamente, nel 2020, il testo di quell’articolo è diventato il fulcro del sito web “Italiano Inclusivo”, ancora oggi curato da Boschetto.

La questione dello schwa sarebbe probabilmente rimasta relegata a contesti di nicchia, se il giornalista Mattia Feltri non avesse pubblicato “Allarmi siam fascistə” sul quotidiano La Stampa.

Procedendo con ordine, occorre anteriormente spiegare cos’è lo schwa (Ə), questa sorta di “e” rovesciata di 180°.
Si tratta di un simbolo appartenente all’IPA (International Phonetic Alphabet) e si qualifica come una vocale intermedia (detta anche indistinta).

In italiano lo schwa non esiste né come fonema né come simbolo dell’alfabeto; è presente infatti solo in alcuni dialetti, in particolare del sud Italia, come ad esempio nella parola napoletana “munnƏ” (mondo).

L’ italiano standard tuttavia non lo riconosce come fonema, cioè “come segmento fonico-acustico non suscettibile di ulteriore segmentazione, dotato di capacità distintiva e oppositiva rispetto alle altre unità” (Vocabolario Treccani online).

Cosa pensano i sostenitori dello “schwa”?

Coloro che sono a favore dell’introduzione dello Ə, una fra tutti(/e) la sociolinguista Vera Gheno, ritengono che l’utilizzo dello schwa possa includere, o meglio, porre su un piano di convivenza delle differenze, anche coloro che non si riconoscono nel binarismo di genere.

Coloro che si contrappongono all’uso dello schwa, almeno quelli onesti intellettualmente, non si oppongono allo schwa in quanto fascisti, ma in quanto linguisti.
Le loro argomentazioni non entrano nel merito socio-politico o ideologico, ma operano valutazioni di rango strettamente tecnico.

Una riflessione preliminare è opportuna: il rapporto tra lingua e realtà è di natura complessa e non si pone in termini di mimesi.
Pretendere che la lingua rifletta sempre la realtà è una scorciatoia del pensiero, frutto di un bias cognitivo che si potrebbe definire bias del pregiudizio realistico.

E allora si potrebbe obiettare: la lingua la fa chi la parla. Vero. La lingua nasce e si sviluppa grazie alla comunità dei parlanti.
Ma come muta la lingua?
Il mutamento linguistico avviene in maniera naturale, mai per imposizione dall’alto. Non ci si sveglia al mattino dicendo: “la parola apericena non mi piace, facciamo una petizione per annullarla” (cfr. petizione di Michela Murgia).
Inoltre, la lingua quando muta risponde ad esigenze di economicità; ciò significa che la lingua si evolve procedendo per semplificazioni, tende a “ridurre”, non ad “ampliare”.

“Quello che noi chiamiamo “grigio” è una tonalità riconducibile potenzialmente a diecimila tonalità di grigio, ma solo a pochissime abbiamo dato un nome. Nello spettro cromatico noi vediamo tutte queste sfumature, ma poi abbiamo bisogno di una sola parola che dia conto del fatto che tutte rientrano nella gamma di colore che per noi si chiama grigio. C’è un problema di economicità e c’è un problema nel pensare che la lingua debba avere una desinenza per ogni identità: è una follia perché distorce la funzione della lingua che serve a far comunicare le persone”. (Andrea De Benedetti).

Tornando ai sostenitori dello schwa, costoro ritengono che espressioni come “buongiorno a tutti” possano discriminare persone che in quel “tutti” non si riconoscono.
Ma perché in italiano si utilizza “tutti”, senza far distinzione tra uomini e donne?
Per convenzione.
“J’accuse!” potrebbero dire alcuni, confondendo la convenzione con la politica del “si è sempre fatto così”.

La questione in realtà è un’altra: quel “buongiorno a tutti” utilizza il cosiddetto “machile sovraesteso” o “non marcato”.
“Nell’italiano standard il maschile al plurale è da considerare come genere grammaticale non marcato […]. Se dico “stasera verranno da me alcuni amici” non significa affatto che la compagnia sarà di soli maschi (invece se dicessi “alcune amiche”, si tratterebbe soltanto di donne). (Accademia della Crusca).

Dunque il maschile non marcato, proprio della grammatica italiana, potrebbe de facto risolvere tutti i problemi, comprendendo anche le persone non binarie.

In sintesi per analizzare in maniera corretta la questione “bisognerebbe distinguere il genere come categoria socio-culturale dalla categoria grammaticale di ‘genere’, che in italiano oppone Maschile e Femminile e si manifesta attraverso la differenziazione di forme pronominali e di desinenze nominali”. Bisognerebbe altresì scindere “il genere inteso come categoria socioculturale, distinguendolo dal concetto di sesso biologico” (Cristiana De Santis).

Altre teorie “pseudo inclusive” screditate sono quelle che prevedono l’uso dell’asterisco al posto delle desinenze e quelle che vorrebbero reintrodurre il genere neutro.

Per quanto riguarda l’uso dell’asterisco (dal gr. Asterískos ‘stelletta’), questo è un segno grafico, non un segno linguistico, dunque non ha un corrispettivo fonico (non si può pronunciare). Ciò implica che esso si possa usare solo nello scritto. E poiché la lingua, prima ancora di essere scritta, è orale, l’asterisco non risulta una soluzione praticabile.
L’asterisco può essere utile in una comunicazione immediata e informale, nei singoli “acte de parole”: nessuno riceverà una sanzione se sulla propria storia Instagram userà un asterisco per opacizzare una desinenza. Ma l’italiano standard non può avallare una soluzione di questo tipo.

Per quanto riguarda invece l’introduzione del genere neutro, si può argomentare in questo modo: il genere neutro esisteva nella lingua latina e serviva ad indicare primariamente concetti astratti o esseri inanimati. Ma il problema principale torna ad essere quello dell’economicità della lingua: se la lingua procede per semplificazioni, è antieconomico e innaturale aggiungere un ulteriore genere grammaticale.
Su questo punto la stessa Vera Gheno afferma che “l’apertura verso ‘generi altri’ crea una tensione con la tipologia della nostra lingua, che de facto prevede solo maschile e femminile”.

Quali potrebbero essere le soluzioni alternative allo schwa?

Per il momento, le carte in tavola sono le seguenti:

– utilizzo di sostantivi epiceni, che non hanno bisogno di essere declinati (es. persona, individuo, soggettività);
– perifrasi per limitare le desinenze;
– utilizzo tecnico e non ideologico del maschile sovraesteso.

Le conclusioni offerte dall’ Accademia della Crusca sono le seguenti:

“È verissimo, come diceva Nanni Moretti in un suo film, che “le parole sono importanti” (ma lo sono anche la grafia, la fonetica, la morfologia, la sintassi) e denunciano spesso atteggiamenti sessisti o discriminatori, sia sul piano storico (per come le lingue si sono andate costituendo), sia sul piano individuale. Come abbiamo detto all’inizio, la quantità di richieste che abbiamo avuto, che ci hanno espresso dubbi e incertezze a proposito del genere e della distinzione di genere, ci rasserena, perché, soprattutto per come sono stati formulati i quesiti, documenta una larga diffusione di atteggiamenti di civiltà, di comprensione, di disponibilità. È senz’altro giusto, e anzi lodevole, quando parliamo o scriviamo, prestare attenzione alle scelte linguistiche relative al genere, evitando ogni forma di sessismo linguistico. Ma non dobbiamo cercare o pretendere di forzare la lingua – almeno nei suoi usi istituzionali, quelli propri dello standard che si insegna e si apprende a scuola – al servizio di un’ideologia, per quanto buona questa ci possa apparire. L’italiano ha due generi grammaticali, il maschile e il femminile, ma non il neutro, così come, nella categoria grammaticale del numero, distingue il singolare dal plurale, ma non ha il duale, presente in altre lingue, tra cui il greco antico. Dobbiamo serenamente prenderne atto, consci del fatto che sesso biologico e identità di genere sono cose diverse dal genere grammaticale. Forse, un uso consapevole del maschile plurale come genere grammaticale non marcato, e non come prevaricazione del maschile inteso come sesso biologico (come finora è stato interpretato, e non certo ingiustificatamente), potrebbe risolvere molti problemi, e non soltanto sul piano linguistico”.

Circa Piera Toppi

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