Riavviare la discussione sul mercato del lavoro per impostare un progetto che faccia perno sulla qualità dell’impresa e del lavoro, come via maestra per fronteggiare le sfide della competitività globale. La contrattazione collettiva, in Italia, è salda. Ma è necessario superare il vecchio modello della flexicurity con una nuova impostazione: la flexstability. Cosa significa? Spostare l’asse della flessibilità dal rapporto di lavoro alla prestazione del lavoratore, con la sua disponibilità a turnazioni, reperibilità, stagionalità degli orari, picchi di mercato e lavoro agile; ma anche dare valore al rapporto di lavoro, con un rafforzamento della stabilità, che premi le assunzioni a tempo indeterminato. Sono necessari 3 passi: riduzione del cuneo fiscale, rinnovo dei contratti di lavoro alla loro scadenza naturale, revisione dei meccanismi dell’indennità di vacanza contrattuale. Siamo pronti?
Riavviare la discussione sul mercato del lavoro per impostare un progetto che faccia perno sulla qualità dell’impresa e del lavoro, come via maestra per fronteggiare le sfide della competitività globale. La contrattazione collettiva, in Italia, è salda. Ma è necessario superare il vecchio modello della flexicurity con una nuova impostazione: la flexstability. Cosa significa? Spostare l’asse della flessibilità dal rapporto di lavoro alla prestazione del lavoratore, con la sua disponibilità a turnazioni, reperibilità, stagionalità degli orari, picchi di mercato e lavoro agile; ma anche dare valore al rapporto di lavoro, con un rafforzamento della stabilità, che premi le assunzioni a tempo indeterminato. Sono necessari 3 passi: riduzione del cuneo fiscale, rinnovo dei contratti di lavoro alla loro scadenza naturale, revisione dei meccanismi dell’indennità di vacanza contrattuale. Siamo pronti?
Da lungo tempo, in Italia, il dibattito sull’occupazione, sul mercato del lavoro e sulle retribuzioni appare bloccato senza che si trovi il bandolo di una matassa strettamente annodata, nella quale si intrecciano molti fili. Certamente tale confronto rimanda a una vastità di argomenti di dimensione storica, che appaiono destinati a cumularsi e complicarsi sempre di più.
Ci troviamo in un passaggio epocale nel quale dobbiamo affrontare quelle transizioni – ambientali e digitali – che, più in generale, sono intese e destinate a rimodellare il tessuto economico e industriale dell’Unione europea.
E l’Italia, più di altri Paesi, si trova a dover risolvere questo passaggio senza aver sciolto i nodi del passato, innescati dalla globalizzazione, da un degrado del sistema industriale e aggravati dagli effetti della pandemia, che ha stravolto le catene degli approvvigionamenti e del valore di tutto il mondo.
Testimonianza della precarietà della situazione italiana è lo stato dei salari nel nostro Paese. Di tutti i Paesi Ocse, l’Italia è, infatti, l’unico nel quale, negli ultimi trent’anni, le retribuzioni sono calate. E i numeri, da questo punto di vista, offrono un verdetto impietoso. Tra il 1990 e il 2020, i salari, in Italia, sono scesi: -2,9%. Un estremo opposto del confronto sui salari è offerto dai Paesi Baltici, con una crescita del 200,50% in Lettonia, del 237,20% in Estonia e del 276,30% in Lituania. Certo, si tratta di Paesi che vengono dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, l’economia dei quali ha avuto un’accelerazione estrema. Ma andando a vedere un paese industriale maturo e forte, con il quale il confronto è più coerente, come la Germania, si scopre una crescita dei salari del 33,70%. Perfino nella penultima nazione in questa classifica, la Spagna, la crescita è del 6,20%. In ambito Ocse, insomma, solo l’Italia vede una retromarcia delle retribuzioni.
La nostra convinzione è, in ogni caso, che una delle criticità fondamentali sia il fallimento della flexicurity. Ossia, quel modello – peraltro in declino in tutta Europa – fondato, laddove ha funzionato, su una forte flessibilità contrattuale che produce contratti di lavoro indirizzati alla flessibilità produttiva e, quindi, a tempo determinato; un supporto ai lavoratori impostato sulla formazione continua; un robusto sistema di politiche attive che facilitino collocazione e ricollocazione; protezione sociale e sostegni ai redditi. In Italia, la flessibilità, dalla mansione si è trasferita ai rapporti di lavoro, diventando precarietà; la sicurezza non ha prodotto né formazione, né politiche attive
È, perciò, importante riavviare la discussione sul mercato del lavoro per impostare un progetto che faccia perno sulla qualità dell’impresa e del lavoro come via maestra per fronteggiare le sfide della competitività globale.
Se vogliamo invertire la tendenza alla frammentazione, che grava soprattutto sui soggetti più fragili, i giovani e le donne, occorre affrontare il problema in modo radicale e riconoscere il fallimento della flexicurity.
Fallimento che è dovuto al fatto che il binomio Flex e Security, come abbiamo ricordato pocanzi, ha funzionato solo dal lato della flessibilità: le politiche attive in Italia sono al palo e il nostro sistema di collocamento pubblico è inadeguato, sia in termini quantitativi, che qualitativi rispetto ai principali partner europei. Somma di problemi che ha prodotto un allargamento esasperato della flessibilità del rapporto di lavoro, alla quale non ha corrisposto un adeguato sistema di incontro tra domanda e offerta.
Perciò, vogliamo superare la flexicurity con una visione nella quale la flessibilità diventi uno strumento nella disponibilità del lavoratore, anziché una condizione di precarietà strutturale. Un meccanismo che intendiamo definire come flexstability (termine già utilizzato in tutt’altri contesti del quale proponiamo una nuova accezione).
I punti fondamentali nel disegno della flexstability sono:1) spostare l’asse della flessibilità dal rapporto di lavoro alla prestazione del lavoratore. Uno scambio, da proporre alle imprese, che incroci stabilità del rapporto di lavoro e flessibilità della mansione, la quale sia impostata sull’organizzazione del lavoro aziendale. Una flessibilità della prestazione, con disponibilità del lavoratore a turnazioni, reperibilità, stagionalità degli orari, picchi di mercato e lavoro agile;
2) stabilità del rapporto di lavoro, che implichi un congruo periodo di prova, anche biennale, al termine del quale l’azienda decide se dar corso all’assunzione a tempo indeterminato;
3) incentivi pubblici indirizzati esclusivamente a sostenere le assunzioni a tempo indeterminato: il lavoro stabile deve costare meno di quello flessibile.
Insomma, favorire la qualità del lavoro. E ridimensionare drasticamente la diffusione del lavoro povero. Così da migliorare il potere d’acquisto delle retribuzioni.
In questo senso, sono necessari tre passi: riduzione del cuneo fiscale; rinnovo dei contratti di lavoro alla loro scadenza naturale; revisione dei meccanismi dell’indennità di vacanza contrattuale e dell’IPCA, l’indice dei prezzi al consumo armonizzato.
Il mercato del lavoro, insomma, ha bisogno di un rinnovamento dei pilastri di quella contrattazione collettiva ben salda e largamente diffusa in Italia.