Tartaglia Arte: la pittura di Andrea Di Marco a dieci anni dalla scomparsa

Dieci anni fa Andrea Di Marco (Palermo, 1970-2012) lasciava questa terra, gli affetti familiari e una coesa e variegata comunità dell’arte, per cui era stato carismatica e umanissima figura di riferimento, nel cuore di una Palermo amata e detestata, con tutto quel carico di bellezza e di violenza estetica, anarchica, sociale, politica: città irredimibile, ispirazione perpetua e rifugio, tra salvezza e nascondimento. E lasciava, Di Marco, la sua pittura soprattutto, croce e delizia di una breve vita trascorsa a inseguire un senso nel perimetro di un’ipotesi bidimensionale, nell’impasto di carne e di luce, nella regola del tempo continuamente spezzata, slabbrata, espansa, immortalata, rubando frammenti qualunque a un teatro di oggetti inerti e di scorci comuni, qui mesti, lì radiosi, riscattati nel mistero della pittura. Un mondo abitato da quella moltitudine di cose inessenziali che sono arnese, ornamento, tesoro e memoria di vite tutte simili e tutte speciali. Un mondo affettuosamente percepito e metodicamente restituito nell’incanto di un rettangolo di tela.

LA PITTURA DI ANDREA DI MARCO

Morire, a poco più di quarant’anni, quando quella pratica artistica si era fatta matura, lasciando intravedere spazi nuovi e altezze progressive; e non avere il tempo di raccoglierne gli adeguati frutti, nonostante i molti attestati di stima giunti a livello locale e nazionale; e non arrivare a vedere insidiata, in parte e finalmente, la diffidenza residua nutrita dal mainstream nei confronti della pittura. Certa pittura, in particolare: narrativa, figurativa, intrisa di realismo, fedele a un antico esprit identitario (in questo caso insulare e mediterraneo), estranea allo sperimentalismo internazionale di matrice astratta, tecnologica, concettuale. E tuttavia pittura contemporanea, postmoderna, figlia di un presente che ha mille pieghe e direzioni. Così si avvertiva, nel lavoro di Di Marco, il senso profondo della conoscenza e della riconoscenza, pensando a quella nobile scuola siciliana scandita da cromatismi e luminismi assoluti: dal commovente paesaggismo ottocentesco di Lojacono o di Leto, al ruvido realismo degli oggetti e della storia che in Guttuso fu impegno civile ed epico racconto politico, popolare, intimo. E poi i grandi maestri del Novecento italiano, materia di studio e di continua interrogazione per una schiera di pittori ancora sensibili all’enigma delle cose mute, su sé stesse ripiegate, eppure risonanti, cariche di sedimenti umani: Morandi, Casorati, De Pisis… Andrea Di Marco era un artista con un forte senso della storia e della tradizione. E però, tutto questo si mischiava con una leggerezza pop, persino punk, con un groove sgualcito e scanzonato, con l’irriverenza e le inquietudini di una generazione cresciuta tra gli Anni Ottanta e Novanta, e con l’eco di una risata limpida, briosa, che era carattere, atteggiamento, postura personale, nel mezzo di una ricerca pittorica ed esistenziale densa anche di nostalgie, di malinconie, di accenti saturnini, di sentimenti liquidi, domestici, ma non addomesticati. Mistura di ombre e di dolcezze, di fragilità e di tenacia, con quel senso della luce e del colore che restava volontà primaria.

LA MOSTRA SU ANDREA DI MARCO A PALERMO

Allo scoccare di questo primo decennale dalla morte, l’Archivio Andrea Di Marco, che fa capo alla famiglia, presenta a Palermo una piccola, preziosa mostra, curata da Sergio Troisi e Alessandro Pinto, con la collaborazione di Francesco De Grandi, che con Di Marco aveva condiviso lunghi anni di fraterna amicizia e di amore per la pittura. Senza alcuna velleità monografica, senza ambire al taglio di una retrospettiva e al rigore scientifico di un catalogo ragionato, Pegno assomiglia più a una visione, a una preghiera, a una dedica sottovoce. Un’intuizione originale e raccolta, immersa nella tradizione eppure fuori dalle regole. Alla maniera di Andrea, verrebbe da dire. Protagonista è quello scrigno ligneo, custodito all’interno di Palazzo Branciforte, che un tempo fu il Monte dei Pegni di Palermo. L’antico edificio nobiliare, che oggi ospita le collezioni archeologiche della Fondazione Banco di Sicilia, una biblioteca, un auditorium e un ristorante, nel 1801 venne ceduto dal Principe di Butera al Senato Palermitano, perché potesse offrire adeguati spazi all’enorme bastimento di oggetti, ceduti in pegno dalla povera gente in cambio di qualche soldo: il cinquecentesco, originario Monte di Pietà non era più sufficiente. Nasceva così il nuovo “Monte della Pietà per la Pignorazione”, detto anche “dei Pegni” o “dei Panni”, a seguito di una serie di lavori di adeguamento, sia a livello delle facciate che degli interni. A prendere il posto dei lussuosi saloni del piano nobile furono così degli alti stanzoni, scanditi da fitte strutture in legno, tutte scale, ballatoi, celle, ripiani, carrucole, montacarichi. Qui i palermitani depositavano i loro beni, riscattabili dopo un certo periodo o altrimenti venduti all’asta. L’arzigogolo di scaffali e di gradini si popolava così di abiti, scarpe, coperte, suppellettili, lenzuola, cappelli… Una trama ormai invisibile di storie individuali e familiari, in cui restava intrappolato il peso specifico della sofferenza, della fatica, della speranza. E un brano di questo tempio laico, intriso di pietas e di memoria ‒ che quasi evoca le allucinate Carceri di Piranesi o i dedali impossibili di Escher ‒ sopravvive oggi in un’ala del palazzo, anni fa restaurato su progetto di Gae Aulenti.

Andrea Di Marco, Pegno, installation view at Palazzo Branciforte, Palermo, photo Helga Marsala

PITTURA E FOTOGRAFIA SECONDO ANDREA DI MARCO

Scorrono così, tra le celle di questa architettura vertiginosa, alcune pagine di quella drammaturgia quotidiana a cui Di Marco dedicò l’intera vita. Come pegni contemporanei, i dipinti trovano posto tra le scaffalature, poggiati e non appesi, custoditi più che esposti, nella nudità di un allestimento che ricalca la natura del luogo. Sono squarci di giallo-oro, di blu oltremare, di grigioazzurro, di rosa, di bruno o di bianco latte, aperti qui e là lungo l’intricato labirinto, come oggetti tra milioni di altri oggetti scomparsi, finiti chissà dove tra la polvere dei secoli. Quadri come cose, qui offerti nella loro concretezza e nella loro valenza testimoniale, simbolica e fisica insieme. Quadri che, a loro volta, sono rappresentazioni di cose: ombrelloni chiusi, giocattoli, stendi panni, bancarelle, saracinesche calate, sedie, cianfrusaglie sparse, biciclette, e i mitici Apecar ricolmi di cassette vacanti, riverse, impilate. Una cernita di soggetti che gioca con l’idea di trasporto, di accumulazione, di merce trovata, stipata, recuperata, ancora connettendosi con la storia e le storie di questi depositi della carità. Esclusa, come sempre nei racconti di Di Marco, la figura umana. Escluse le persone, le azioni, i movimenti, ma anche i dettagli delle stanze, l’indugio sugli arredi o le scene troppo circostanziate. Tra angoli di strade o interni non identificati, sono gli oggetti stessi a imporsi, con tagli quasi sempre frontali e ravvicinati, celebrati dal vuoto intorno, dalle linee delle ombre, dal vigore delle luci, dalle tinte tenui e qualche volta squillanti. Quella che in apparenza si configura come una cronaca del quotidiano si sovverte allora in un testo lirico scandito da silenzi, diluito nel tempo della contemplazione, spinto fino alla soglia della materia per affacciarsi nello spazio indefinito della “cositá”, fra catalogo antropologico e ontologia del quotidiano. L’oggetto umile, circoscritto, declinato sovente attraverso un’infinita ripetizione già tutta mentale, si proietta nell’universale grazie a una pittura macerata con sensibilità e cognizione storica. Non più questa sedia, questa lambretta, questo ombrellone. Ma l’idea stessa della sedia, il suo corrispettivo concettuale. E ancor più oltre, l’idea del vuoto, del cavo, dell’essere abbandonato, inutilizzato, a riposo. Nel mezzo fra mestizia e letizia. Tattile, sintetica, risolta con pennellate essenziali e morbide, la narrativa di Di Marco si disinteressa alla minuzia realista, tanto meno a un iperrealismo di matrice fotografica, malgrado la fotografia fosse origine e appunto necessario all’interno di una pratica di analisi e archiviazione del reale. Fotografia come metodo, sì, ma anche come essenza, etimologicamente “scrittura di luce” e poi compagna di un accorto peregrinare cittadino, raccogliendo, in forma di diapositive, dissonanze, corrispondenze, malie nascoste tra le cose comuni. E imparando ad osservare daccapo. Restano fuori dalla mostra, purtroppo, tante perle della produzione di Di Marco, tra opere di medio e grande formato: la selezione, soggetta anche ai limiti fisici degli ambienti, porge però alcune eccellenze, tra cui lo splendido Notturno del 2011. La sintesi va certo in favore di una rarefazione utile al respiro dello spazio attorno, già così eloquente, giustamente non troppo caricato.

RICORDANDO BOLTANSKI

In questo stesso luogo, vent’anni fa, proprio Sergio Troisi curava una mostra di Christian Boltanski, nell’ambito di quella straordinaria esperienza che fu il Festival del Novecento, diretto da Roberto Andò. Due artisti così diversi, per generazione, per milieu culturale, per ricerca, per linguaggio, per vocazione. Eppure, a connetterli, in un gap temporale che si annulla magicamente, è questo teatro dei pegni e dei reperti che diventa qualcosa di più di una semplice coincidenza. Dal regno notturno e ultraterreno del grande artista francese, dai suoi logori cappotti scuri, reliquie di piccoli santuari accesi, da quella folla di spettri, di lampadine azzurre, di ombre, di anime disseppellite e di panni dismessi, di volti anonimi proiettati come diapositive in loop, arriva un’eco ancora robusta, che oggi risuona nelle immagini di Di Marco, nei suoi oggetti sopravvissuti, anch’essi tracce di un’assenza, testimoni di qualcosa che fu, di qualcuno che li poté toccare, abitare. Torna, il linguaggio segreto delle cose, a dischiudere dimensioni ulteriori, nell’invisibilità e nella dissolvenza facendosi resistenza.

By Helga Marsala – artribune.com

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