Prof. Rocco Ronchi, Lei ha curato con Riccardo Panattoni l’edizione del libro Kafka:, edito da Mimesis. Il libro compie, sin dal titolo, una scelta grafica inusuale mettendo i due punti dopo il nome Kafka e lasciando vacante ogni ulteriore esplicitazione: per quale ragione?
Kafka:, Rocco Ronchi, Riccardo Panattoni Nella soluzione grafica proposta per il titolo i due punti funzionano come un invito a “esplicitare” Kafka. Non a spiegarlo, a commentarlo, a parafrasarlo o a assumerlo all’interno di un sistema di pensiero come illustrazione di una tesi o di una visione del mondo. “Esplicitare” significa trarre le conseguenze necessarie, quelle già contenute virtualmente nelle premesse. Kafka è la nostra comune premessa. I vari saggi che compongono il libro, quando funzionano e se funzionano, vorrebbero essere l’analisi di questa comune premessa. L’incipit del saggio di Albinati esprime il comune sentire di chi ha partecipato a questa impresa. Che si trovi, per casuali ragioni di ordine alfabetico, anche all’inizio del libro, è una felice e inattesa congiuntura. Noi tutti, infatti, abbiamo provato a scrivere di Kafka – ma meglio sarebbe dire a partire da Kafka – “schiacciati dall’ammirazione”. Questo è il senso dei due punti nel titolo. L’ammirazione non è forse un esercizio critico raccomandabile per chi voglia prodursi in una rigorosa esegesi storico-filosofica, per questa, lo ribadiamo, altre sono le sedi deputate, ma è il sentimento dal quale ci siamo lasciati guidare. Volevamo provare a rivolgere il nostro sguardo là dove Kafka aveva guardato il mondo, persuasi che quel mondo, per molti aspetti inabitabile, fosse, in ultima analisi, il nostro stesso mondo. L’insistito richiamo alla “immanenza”, che è presente nei saggi che compongono il libro, aveva questo senso: Kafka, che molti hanno letto “teologicamente”, ci porta in realtà dentro l’esperienza, alla sua radice. Ci interessava insomma qualcosa che per lo più viene disprezzato dagli intellettuali: l’ “attualità” di Kafka, la coerenza della sua opera con il “farsi” della nostra esperienza. Quando di un classico si sottolinea, non senza compiacimento da happy few, l’ “inattualità”, lo si assegna al pantheon e lo si rende inoffensivo. I due punti del titolo per noi significano proprio il contrario della museificazione e della trascendenza.
Quali domande suscita nel lettore la lettura di Kafka?
Credo che due siano le domande che la lettura di Kafka suscita nel lettore. La prima è la domanda del sapere. Che cosa vuole dire Kafka con le sue involute parabole? Di che cosa sono metafora? Quale verità è cifrata nei suoi fulminanti apologhi e quale significato ci attende al termine delle estenuanti divagazioni e delle continue ritrattazioni di cui sono intessuti i suoi ragionamenti? La domanda che chiede così è, al contempo, la domanda più ingenua e quella più inevitabile. Kafka non poteva ignorare che tale era l’effetto indotto nel lettore. Tuttavia essa è destinata a rimanere sempre senza risposta e Kafka certo si divertiva a creare le condizioni per questa frustrazione. C’è però anche un’altra domanda che la lettura di Kafka suscita ed è quella a cui ci siamo attenuti nella costruzione di questo libro. La seconda domanda è “pragmatica”. Non chiede che cosa vuol dire Kafka, non vuole un significato, ma chiede che cosa fa Kafka e come lo fa, come funziona la sua implacabile macchina di scrittura, quale sensibilità attivi in noi che, leggendolo, siamo convocati nel suo vortice, senza mai venire a capo di che cosa stiamo sentendo all’unisono con lui. Leggere Kafka non è produrre un concetto adeguato del mondo di Kafka (l’ “ebreo” Kafka, il “messianico” Kafka, il “nichilista” Kafka ecc.), ma sentire il nostro mondo, il solo che conosciamo, attraverso il sentire di Kafka. La frustrazione sul piano del sapere diventa allora una intensificazione della sensibilità che ora, grazie ad una specie di torsione, è capace di rapportarsi al fondo “mostruoso” della nostra esperienza. Uso la parola “mostro” senza nessuna connotazione negativa per enfatizzare l’irriducibilita dell’esperienza alla logica.
Nel Suo contributo, Lei descrive Kafka come «un dispositivo produttore di effetti sensibili»: in che modo la filosofia è chiamata in causa per esplicitare come quella macchina generatrice di enunciati abbia funzionato?
Assegnare Kafka alla filosofia, facendone hegelianemente una “figura” del sapere assoluto (o, forse, lo stesso sapere assoluto), è un errore grossolano, al quale tuttavia non è facile sottrarsi. Troppe sono le esche che Kafka getta al filosofo perché questi non ne tenti una sintesi concettuale. Bisognerebbe però resistere a questa tentazione e provare a percorrere il cammino inverso, assegnando la filosofia a Kafka. Perché, come è universalmente noto (ma forse è troppo noto per essere effettivamente meditato…) non c’è filosofia senza straniamento, non c’è metafisica senza problematizzazione dell’ovvio, non c’è scienza della logica senza l’angoscia provocata dall’impossibilità sperimentata di raggiungere il villaggio più vicino o il Castello che si staglia non lontano da noi. Kafka non è assegnabile alla filosofia perché della filosofia, del suo itinerarium mentis in Deum, Kafka è la scena. Tutto in Kafka ci parla della filosofia, ma non di questa o di quella filosofia, bensì della filosofia colta al suo grado zero: della filosofia che si interroga riflessivamente circa la sua stessa possibilità di cominciare, circa la sua possibilità di esistere come filosofia. L’intera opera di Kafka potrebbe senza difficolta figurare all’inizio della filosofia come repertorio di tutti i dilemmi, di tutti i paradossi, di tutti i sofismi, che la filosofia, fin dal suo esordio, non ha mai cessato di elaborare. Lungi dall’essere una filosofia, l’opera frammentaria di Kafka è dunque la “pietra di inciampo” del filosofico, lo skandalon con il quale il filosofo non può non misurarsi se crede nella filosofia.
«L’incontro con Kafka è l’incontro con la legge, la colpa e il non senso. Ogni tentativo di decifrare dialetticamente le prime due e il loro legame tende a schiantarsi contro un muro», scrive nel suo contributo Matteo Bonazzi: è l’esistenza stessa, per Kafka, la nostra colpa?
Ovviamente la domanda andrebbe posta direttamente a Matteo Bonazzi, il quale, probabilmente, risponderebbe affermativamente. Per quello che mi riguarda, sfumerei il rapporto tanto celebrato dalla critica tra esistenza e colpa. Certo, la colpa in Kafka non si dispone sul piano ontico, non è riconducibile ad un ambito etico, dove vige il principio di responsabilità. E lo stesso vale per la punizione. Prova ne è l’arcinota vicenda del Processo. La colpevolezza in Kafka (come in Anassimandro) e semmai ontologica, concerne il fatto stesso di esistere, ma è qualcosa che pertiene più all’ambito dell’errore, in senso logico, che a quello morale. Esistere per Kafka è errare nel doppio senso che ha questo verbo, non solo ingannarsi, prendere lucciole per lanterne, ma anche vagare in uno spazio infinito, senza mai raggiungere la meta. “Scrivere” – l’ossessione di Kafka – diventa allora una sorta di arma a doppio taglio: da un lato conferma l’errore dell’esistere, sanziona il nostro esilio dalla verità, dall’altro è una “via di fuga”, un modo per abitare felicemente il deserto nel quale erriamo infinitamente. Il “grande teatro dell’Oklahoma” dove “tutti sono benvenuti e tutto è possibile” (come scrive Carrera) ne è l’immagine. Non è un caso se Fellini ne è rimasto abbagliato, fino a farne la cifra segreta del suo “cinema”.
Rocco Ronchi è professore ordinario di Filosofia teoretica presso l’Università dell’Aquila e docente di Filosofia presso l’IRPA (Istituto di ricerca di Psicoanalisi applicata) di Milano. Dirige la collana di filosofia Canone minore per la casa editrice Mimesis di Milano e la collana Filosofia al presente per la casa editrice Textus dell’Aquila. Ha fondato e dirige la scuola di filosofia Praxis di Forlì. È autore di numerosissime pubblicazioni scientifiche tra le quali ricordiamo Canone minore: verso una filosofia della natura, Feltrinelli, 2017 e la recente cura del numero monografico de “Il Pensiero. Rivista di filosofia” (2022, LXI) dedicato alla “intuizione intellettuale”.