Anche le strade e le ferrovie sono annoverate nel calderone dei 20 miliardi di dismissioni pubbliche pianificato dal Governo Meloni, nel tentativo di finanziare la Manovra, venire incontro alle aspettative della maggioranza e, nello stesso tempo, ridurre il debito pubblico, rassicurando i mercati sulla stabilità delle finanze pubbliche. Vediamo l’ipotesi di quotazione in Borsa delle Ferrovie ventilato dal ministro dell’Economia Giorgetti.
“Quello delle privatizzazioni è un percorso ad ostacoli ma ambizioso“, ha affermato ieri il Ministro Giancarlo Giorgetti al termine dell’audizione sulla Nadef in Senato. “L’inversione dei fattori, come dicono a scuola, potrebbe aiutarvi a capire”, ha ironizzato, rispondendo a chi chiedeva se le strade e le ferrovie fossero incluse nel piano di privatizzazioni.
Poi il titolare all’Economia ha spiegato che, in ogni caso, “le operazioni saranno coerenti con i profili di strategicità in materia di interesse nazionale degli asset, efficientamento della struttura finanziaria e patrimoniale, ottimizzazione del profilo di mercato e razionalizzazione delle strutture di partecipazione e controllo”.
La vendita delle ferrovie è un dossier già preso in mano nel 2015 dal Governo Renzi, quando l’allora Ministro dei Trasporti Graziano Delrio approvò il decreto che avrebbe dovuto dare il via alla privatizzazione, ma fu contrastato dai sindacati e finì nel dimenticatoio con l’avvicendarsi dei governi.
Se il Gruppo FS finirà in mani private, ciò accadrà seguendo la via maestra e portando le sue azioni in Borsa. Per il Gruppo guidato da Luigi Ferraris, manager di lungo corso che ha già prestato la sua professionalità in aziende quotate, si profila la quotazione in borsa sul modello di Terna, la società che gestisce un’altra infrastruttura critica, la rete elettrica.
E proprio di infrastrutture critiche si discute quando si parla della privatizzazione delle strade e delle ferrovie, una operazione certamente complessa, che va valutata anche sotto il profilo strategico e di più lungo periodo.
Due le ragioni che rendono il Gruppo FAS appetibile: il fatto che è una delle poche società di cu lo Stato detiene ancora il 100% e l’attrattività di questo business, testimoniata anche dalle offerte ricevute dall’unica concorrente, Italia, ultima quella della MSC di Gianluigi Aponte.
Quanto può fruttare?
Nel 2015, quando per la prima volta si prese in mano il dossier, il 40% del gruppo FS valeva almeno 4 miliardi, più o meno la cifra cui è stata valorizzata Italo, dal momento che Aponte sborserà 2 miliardi per una quota del 50%.
Palazzo Chigi potrebbe puntare ad una cifra di 4-5 miliardi, circa un quarto del valore complessivo delle dismissioni pubbliche previste dalla Nadef, restando su un enterprise value del Gruppo pari a 8-10 miliardi per l’intero gruppo.
Le tempistiche? Si parla di almeno un anno, per portare in cantiere l’operazione, secondo il quotidiano La Stampa, dal momento che una privatizzazione implicherebbe a monte un riassetto del Gruppo, che passerebbe per la scissione del business dei treni gestito da Trenitalia dal business della rete che fa capo a Rete ferroviaria Italiana (RFI).
Per per superare eventuali obiezioni antitrust, la rete verrebbe resta neutrale grazie al contemporaneo ingresso nel capitale di fondi pensione che investono in infrastrutture.
Ferraris sta già tessendo la tela
L’Ad del gruppo Luigi Ferraris si trovava a New York, una piazza con una cassa di risonanza di un certo rilievo in ambito finanziario, per una serie di incontri con gli investitori internazionali.
“Con oltre 26 miliardi di euro la nostra azienda è il più grande appaltatore del Paese”, avrebbe affermato il manager, ricordando che il PNRR non è l’unica fonìte di investimenti e che alla base c’è un piano strategico del valore di 200 miliardi, da impiegare per colmare “il divario infrastrutturale tra Nord e Sud” e per il “potenziamento delle interconnessioni del piano Giorgetti per privatizzare le Ferrovie dello Stato