Mes, Meloni a Schlein: ‘Perche il Pd non lo ha ratificato?

 «Ma perché non lo avete ratificato se era così fondamentale farlo in tempi rapidi?». Così  la presidente del Consiglio Giorgia Meloni si è rivolta alle opposizioni che sono tornate ad alzare i toni chiedendo l’approvazione del Mes. Un richiamo alle responsabilità dei precedenti governi di cui proprio il Partito Democratico – principale sostenitore del Meccanismo europeo di stabilità a cui ha parlato  la premier – era tra gli azionisti di peso.

Differente il discorso per quanto riguarda il Movimento 5 stelle di Giuseppe Conte che già in passato ha assunto posizioni altalenanti su uno strumento che, va riconosciuto, ha cambiato più volte forma.

Se l’atto costitutivo e l’avvio del percorso di ratifica da parte dei parlamenti nazionali del Mes risalgono entrambi al 2012, quando a Palazzi Chigi siedeva Mario Monti con una maggioranza alla quale non appartenevano né la Lega né la fondatrice di Fratelli d’Italia Meloni, va ricordato che l’origine politica del Trattato affonda le sue radici quando al governo c’era il centrodestra guidato da Silvio Berlusconi (con Meloni ministro). Il primo atto politico e formale di nascita del Mes risale infatti alla riunione dei ministri finanziari dell’Unione europea dell’11 luglio 2011, con l’Italia rappresentata da Giulio Tremonti. Una paternità contro cui, a quel tempo, non si riscontrano prese di posizione né dell’attuale premier né del suo vice leghista, già dirigente del Carroccio.

Mentre il Trattato fa il suo lento percorso europeo cambiando da Fondo Salva stati, a trattato sanitario a versione “ultra-light” fino a “Fondo Salva banche”, a palazzo Chigi si alternano le maggioranze giallo-verdi e giallo-rossa. Se per la prima la ratifica del Mes non è assolutamente un argomento di discussione, per la seconda invece lo è eccome. L’Italia ne uscì solo perché l’Europa stava già elaborando un altro strumento di sostegno all’economia che è il Recovery. Fatto sta che in quel frangente il Partito democratico non riuscì a strapparne l’approvazione.  (con Lega ed FdI, allora all’opposizione, nettamente contrari).

Poi a capo del governo si ritrova Mario Draghi e  il ministro dell’Economia Daniele Franco si dice pronto alla ratifica. Dichiarazione di intenti che scatena nuovamente gli oppositori di uno strumento ma   il Partito Democratico  non riuscì a imporsi e a ottenere la ratifica.

“La logica del pacchetto non ha senso. Quello sul Mes è un negoziato chiuso, manca solo la ratifica dell’Italia. Mentre è ancora in corso la trattativa sulla riforma del Patto di stablità. Sono due cose completamente diverse”, afferma l’economista Veronica De Romanis: “Il Mes già esiste, si discute la revisione: quando l’Italia lo ratificherà – spiega l’economista e docente della Luiss – questo meccanismo avrà uno strumento in più da usare in caso di crisi bancaria sistemica da affiancare al fondo di risoluzione unico che ha una capacità limitata, pari a di 55 miliardi. Non ha senso privarsi di un estintore. Firmare e dichiarare di non utilizzarlo è peggio di non firmarlo. Si sta dicendo ai nostri vicini, i partner europei, che in caso di incendio non useremo l’estintore, non tranquillizzandoli sul rischio di contagio”.

L’errore è quello di mettere insieme il Mes e il Patto di stabilità, con la logica di uno scambio. Ci sono due posizioni: la Germania chiede criteri quantitativi uguali per tutti; mentre Italia e Francia chiedono più spazio per fare investimenti. La verità è che se mettiamo insieme le due proposte stiamo tornando alla logica del vecchio patto. Ma, se è così, perché lo stiamo riformando? Peraltro, inserire questi correttivi darebbe vita a uno schema pasticciato e poco trasparente. Il problema non è nelle regole, ma nella maniera in cui sono applicate. Con il vecchio patto ci sono Paesi che hanno ridotto il debito e aumentato gli investimenti, come la Germania, e altri che hanno utilizzato i margini di flessibilità concessi dall’Europa per fare nuova spesa corrente. Si  parla dei 25 miliardi di flessibilità, ossia la possibilità di spendere a debito, concessi dall’Europa al governo Renzi e utilizzati per finanziare gli 80 euro. Se gli investimenti non sono stati fatti, la colpa non è delle regole, ma delle decisioni prese dagli Stati e dal monitoraggio fatto dalla Commissione. Piuttosto che fare un pastrocchio, conserviamo il vecchio patto. Magari facendolo funzionare meglio, monitorando di più le situazioni dei singoli Paesi.

Giorgia Meloni, alla vigilia del vertice con i leader europei, fissa i cardini della piattaforma negoziale dell’Italia per la volata finale che dovrà portare nelle prossime settimane alla riforma del Patto di stabilità e crescita (Psc). “La trattativa è aperta, ma ci sono spiragli per una soluzione seria”, spiega. E, però, continua a tenere le carte coperte sul dossier più intricato, quello del Mes. “Parliamo di strumenti e non di totem ideologici. Quando saprò quale è il contesto nel quale mi muovo saprò anche che cosa secondo me bisogna fare del Mes. Certo, se il Pd voleva ratificarlo, lo poteva fare negli anni del suo governo”. Un avviso che determina un vero duello con la segretaria dei democratici, che l’aveva accusata di tenere bloccata l’Europa e che, a stretto giro, contrattacca: “Fa il gioco delle tre carte, è inadatta a governare”.

La data magica del 14 dicembre non si rivelerà decisiva per le sorti della ratifica del Fondo Salva-Stati. L’altolà della Lega, del resto, ha messo la pietra tombale sull’ipotesi dell’esame parlamentare. Ma è stato solo il sigillo a una decisione politica che vede partecipe la stessa premier, con una differenza tattica non secondaria. Dal partito di Matteo Salvini la contrarietà al Meccanismo resta quella di sempre e solo la presenza del leghista Giancarlo Giorgetti al ministero dell’Economia rende i toni del no meno acuti.

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