“Pompei. La città incantata” di Gabriel Zuchtriegel

Pompei. La città incantata
di Gabriel Zuchtriegel
traduzione dal tedesco di Serena Alacri, Mariana Pungoli e Novella Tralinetti
Feltrinelli

«È difficile dire se alla fine la lezione che ci offre la storia di Pompei sia così semplice: ricordare ciò che vorremmo rimuovere, e cioè che tutto può finire da un momento all’altro. Che la vita è fragile. Che non vale la pena buttarla via, tanto può esserci tolta in un istante.

Fra il 3 e il 6 giugno 1974, durante gli scavi nella Casa del Bracciale d’Oro, di cui è stato intrapreso un nuovo progetto di restauro nel 2021, gli archeologi si imbatterono nei resti di tre persone rannicchiate in una cantina dove si erano rifugiate durante l’eruzione del Vesuvio. È stato possibile realizzare dei calchi in gesso dei loro corpi: due adulti e un bambino di circa cinque o sei anni. Il bambino si è aggrappato al suo accompagnatore adulto anche nella morte. Era parso ovvio interpretare il gruppo, esposto nell’Antiquarium di Pompei, come una famiglia. Invece, le analisi del Dna hanno rivelato che si trattava di tre maschi e che molto probabilmente non erano legati da vincoli di sangue. Non una famiglia, quindi, ma tre persone che i casi della vita avevano unito, e che erano morte insieme.

Ma non è tutto. Pompei è anche una storia di sopravvivenza. […] I corpi rinvenuti fino a oggi sono circa 1300, ma non conosciamo la cifra esatta perché durante i primi scavi i resti scheletrici non sono stati documentati, né conservati con la dovuta cura. Ma, anche se quella cifra raddoppiasse e se dovessimo sommarvi le persone decedute mentre erano in fuga sulle strade fuori dalle porte della città, si arriverebbe a calcolare intorno al 10 o 15 per cento dei 20 mila abitanti che, secondo le stime più recenti, vivevano a Pompei. Questo significa che circa l’80-90 per cento della popolazione riuscì a mettersi in salvo: per loro la vita continuò.

Però, non a Pompei. L’imperatore Tito, salito al potere pochi mesi prima della catastrofe, incaricò due magistrati di visitare la città distrutta e avviarne la ricostruzione. Fu loro permesso di utilizzare i beni delle vittime che non avevano lasciato eredi. Una volta giunti sul posto, però, gli inviati dovettero constatare che ricostruire non avrebbe avuto senso. Pompei e la fertile campagna circostante erano state trasformate in un deserto grigio, la posizione della città era solo vagamente riconoscibile sotto strati di pietra e cenere alti diversi metri. I sopravvissuti si dispersero nelle città che sorgevano nei dintorni, come suggeriscono i nomi pompeiani visibili su alcune iscrizioni.

Iniziò così il saccheggio di Pompei. I privati cittadini si misero a scavare nelle loro case – o semplicemente dove pensavano di trovarle – per recuperare i loro averi. Al Foro si procedette in modo sistematico: quasi tutti i rivestimenti in marmo e le statue di bronzo furono rimossi negli anni successivi all’eruzione, il materiale prezioso fu riutilizzato. Seguirono generazioni di tombaroli, le cui tracce si ritrovano ancora oggi negli scavi. Nullatenenti che rovistavano tra la cenere e la polvere alla ricerca di oggetti di valore e che, probabilmente, durante il loro lavoro si imbatterono in più di un cadavere.

I piani superiori delle case erano ancora riconoscibili. Con il passare degli anni, però, la vegetazione riprese vita, traendo un’incredibile forza dal suolo vulcanico e trasformando la pianura ai piedi del Vesuvio in un nuovo paradiso fiorente, dove ogni zolla di terra produce raccolto tre o quattro volte all’anno.

E con tutto questo arrivò… l’oblio. Sebbene il ricordo di una città scomparsa sia rimasto nel toponimo Civita (dal latino civitas), dall’inizio degli scavi, avviati nel 1748, ci vollero quindici anni prima di scoprire che si stava scavando a Pompei e non a Stabia, una delle altre località note dalle fonti scritte.

La portata di una catastrofe si misura anche dalla velocità o dalla lentezza con cui viene o può essere dimenticata. E allora l’oblio che presto si è impadronito di questo luogo antico sotto il manto di una rifiorente vegetazione ha anche qualcosa di confortante. La ferita si è chiusa. Certo, gli scritti di storici come Plinio hanno conservato nella memoria ciò che era accaduto, per quanto, dal nostro punto di vista, in forma fin troppo sintetica. Ma sul posto, nessun monumento ha commemorato le vittime, nessun tabù religioso si è posato sul luogo del disastro. E nemmeno è stata costruita una nuova Pompei. Eppure sarebbe stata una possibilità. Persino a Cartagine, acerrima nemica di Roma, dopo essere stata completamente distrutta dai romani nel 146 a.C., quando l’intera popolazione venne ridotta in schiavitù, fu permesso di risorgere un secolo dopo sotto Cesare. Nel 397 d.C., nella città si svolse addirittura un importante concilio ecclesiastico. Sui resti di Pompei, invece, allora pascolavano da tempo le pecore tra uliveti e vigne.

In questo senso, la storia di Pompei è anche un elogio dell’oblio. Senza oblio non è dato riscoprire, senza declino non è data la magia del ritrovare e conservare. In sostanza, non può esistere una storia senza oblio, perché storia significa sempre scegliere cosa raccontare e cosa scartare, cioè dimenticare. Proviamo a immaginare il mondo senza oblio: il passato non sarebbe passato, ma ancora presente, sempre, qui e ora.

Credo che questo valga non solo per Pompei, ma per ognuno di noi. Nessuno ha il controllo su ciò che è stato e ciò che sarà, ma l’intreccio di memoria e oblio con cui guardiamo alla storia è nelle nostre mani.»

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