Pregi e difetti degli attacchi a muso duro di Giorgia Meloni alla Fiat/Stellantis

‘Mi ha fatto un po’ sorridere l’accusa arrivata da Repubblica, con una prima pagina sull’Italia “in vendita”. Che quest’accusa venga dal giornale di proprietà di quelli che hanno preso la Fiat e l’hanno ceduta ai francesi», aveva detto  la Meloni, «hanno trasferito all’estero sede legale e sede fiscale, hanno messo in vendita i siti delle nostre storiche aziende italiane. Non so se il titolo fosse un’autobiografia però, francamente, lezioni di tutela di italianità da questi pulpiti, anche no», era stata l’accusa del presidente del Consiglio, con ovvio riferimento alla famiglia Agnelli ed Elkann che controlla la proprietà editoriale del quotidiano fondato da Scalfaro.

Anche Carlo Calenda denuncia la “svendita” di Stellantis-Fiat ai francesi oltre che la dialettica politica imponga di fare chiarezza sulle commistioni tra editoria e poteri più o meno forti, se dietro esistono scenari poco comprensibili agli italiani rispetto alla gestione di asset strategici e storici per l’Italia. La Fiat, Stellantis, gli Agnelli e gli Elkann, spiega dal canto suo Calenda, sembrano disposti a tutto, anche ad andare in Marocco, per macinare utili, nell’anno in cui per la prima volta una marca tedesca, la Wolkswagen, ha superato le vendite di Fiat Italia. “Perché nessuno ne parla, perché Repubblica continua invece a ospitare interviste a Landini e non a me?”, è la domanda.

«I francesi sono pronti con l’auto elettrica, di quelli italiani solo uno è al passo con i tempi. Le fabbriche italiane si vanno svuotando. A cominciare da Mirafiori. E Tavares viene a inaugurare a Mirafiori una linea di rottamazione spacciandola per economia circolare. «La fabbrica di Grugliasco è stata messa in vendita su Immobiliare.it. L’avevo inaugurata da ministro insieme a Marchionne. E i nuovi modelli, spacciati per made in Italy, arrivano dalla Serbia. Di italiano l’ex Fiat non ha più nulla. L’Italia è diventata per loro un posto qualunque e chiedono soltanto incentivi. Sono in possesso di una lettera che Stellantis ha inviato ai fornitori italiani, decantando le opportunità di spostare gli investimenti in Marocco. La fuga dall’Italia continua sempre più». Ma di questo, su “Repubblica“, non troverete traccia.

Qualche dettaglio interessante sul “modus operandi” del supermanager del gruppo Stellantis, il portoghese Carlo Tavares, lo svela  il “Corriere della Sera“, in un articolo nel quale ripercorre le tappe più interessanti della sua carriera, nella quale una costante sono – a parte i superstipendi (nel 2022 un salario di 23 milioni e mezzo di euro, pari a 64 mila e 328 al giorno) – anche gli scontri con i governi. Come accadde con quello francese di Macron, che accusò Tavares di voler spostare alcune linee produttive in Italia, salvo poi farle restare in Francia dove il gruppo ha anche la sede legale, alla faccia dell’italianità.

Dopo le accuse di aver cercato di favorire i cinesi, nelle aggregazioni tra Citroen e Peugoeot, “Carlos Tavares però è rimasto, capo di Psa e poi di Stellantis, sempre più potente, sempre pronto a giocare di sponda tra i Paesi pur di fare gli interessi dell’azienda. Dopo essere stato corteggiato da Volkswagen e Astor Martin subito dopo l’addio a Renault, Tavares è numero uno, magari non di General Motors ma del gigante Stellantis, dalla sua nascita nel 2021. A capo di un gruppo multinazionale, Tavares non esita a fare arrabbiare a turno i governi dei singoli Paesi – scrive il “Corriere” – che pensano di avere un diritto di prelazione e voce in capitolo. Nel luglio scorso, al ministro delle Finanze francese Bruno Le Maire che gli chiedeva di mostrare patriottismo e portare in Francia la produzione dei piccoli veicoli elettrici come la Peugeot e-208, Tavares rispose senza esitazioni che invece l’intenzione di Stellantis era chiaramente quella di produrre più modelli negli stabilimenti italiani, a cominciare da quello di Melfi nel Sud del Paese. Erano i giorni in cui si favoleggiava di una valorizzazione del ‘fascino del made in Italy’ anche nell’automobile. Ma intanto quella di Douvrin, in Francia, è stata già inaugurata. E tocca all’Italia adesso sentirsi messa nell’angolo”.

Il governo, però, al supermanager e al suo gruppo ha già concesso incentivi per tutelare gli investimenti, peccato che Tavares non ringrazi. “In questo momento stiamo investendo moltissimo nelle tre gigafactory europee, di cui una è in Italia a Termoli, dove stiamo trasformando lo stabilimento in una gigafactory. E cosa otteniamo? Critiche. Non credo che i dipendenti italiani lo meritino”, insiste il manager. Tavares  critica il ritardo e la scarsità di mezzi messi a disposizione da Palazzo Chigi. “Chiediamo al governo da nove mesi di sostenerci nella produzione di veicoli elettrici. Se vogliamo raggiungere il traguardo di un milione di veicoli prodotti, dobbiamo avere sostegni alla produzione. Vorrei ringraziare il governo che lancerà a febbraio i nuovi incentivi, ma abbiamo perso nove mesi….”. Per la serie, piangi e incassa.

Quanto scritto è semplicemente un solo aspetto della vicenda Fiat/Stellantis, questo partendo dall’inizio della vicenda industriale.

Due attacchi a muso duro in tre giorni della premier Giorgia Meloni al gruppo automobilistico franco-italiano Stellantis, nato dalla fusione tra Fiat e Psa, non è uno spettacolo frequente per la scena politica italiana.

Non che la Fiat, fin dai tempi in cui governava l’avvocato Gianni Agnelli, non fosse spesso nell’occhio del ciclone ma erano altri tempi e Fiat, quella sì davvero egemone che spingeva l’Avvocato a dire che “ciò che è buono per la Fiat è buono anche per l’Italia”, non era quella di oggi. Per la verità non fu sempre vero che ciò che era buono per la Fiat lo era anche per l’Italia e anche allora la proprietà e il management della Fiat non mancarono di compiere errori, anche se l’onestà intellettuale impone di riconoscere non solo che la Fiat era la più grande azienda italiana e dava lavoro a un sacco di gente ma e che, malgrado il suo enorme potere, la famiglia Agnelli fu sempre molto rispettosa delle istituzioni democratiche italiane. E l’onestà intellettuale vorrebbe anche che, sia pure tardivamente, si riconoscesse la rivoluzione compiuta da Sergio Marchionne, l’ultimo grande manager della Fiat che non esitò a tagliare i ponti col passato, rifiutando i sussidi pubblici per la casa torinese. Ma oggi il punto non è riconoscere pregi e difetti di casa Agnelli ma capire perché la Meloni attacca a testa bassa Stellantis.

Le critiche sono molteplici ma, in buona sostanza, si accusa casa Agnelli di aver svenduto la Fiat ai francesi, di permettere a Stellantis di privilegiare gli investimenti in Francia rispetto a quelli in Italia, di aver tradito l’Italia spostando la base legale in Olanda. Sui primi punti, ricordando gli investimenti fatti in Italia e il contributo che l’export di veicoli Stellantis dà alla bilancia commerciale italiana, ha già risposto il Ceo di Stellantis, Carlos Tavares, che in estate aveva, curiosamente, dovuto difendersi dalle accuse del ministro delle Finanze francese, Bruno Le Maire, che gli rimproverava di privilegiare l’Italia rispetto alla Francia. Per inciso  Tavares ha tagliato 600 posti di lavoro nella fabbrica francese di Mulhouse. Ma il punto cruciale dove affiora l’anticapitalismo della premier è che la Meloni, come aveva già fatto con l’extratassa sui profitti bancari nell’estate scorsa, sembra non capire una logica molto semplice che è alla base di ogni multinazionale e cioè che gli investimenti vanno dove il mercato li rende più convenienti. La premier, e  il ministro del Made in Italy e delle imprese, Adolfo Urso, reclamano che Stellantis non produce abbastanza in Italia e vorrebbero che producesse almeno un milione di veicoli l’anno. Desiderio sacrosanto che non risponde però alla replica del Ceo di Stellantis, secondo cui se gli incentivi promessi dl Governo fossero arrivati per tempo, lo stabilimento di Mirafiori avrebbe già prodotto di più e la soglia del milione di veicoli da produrre all’anno in Italia sarebbe più vicina.

Poi c’è l’altro aspetto delle accuse di Meloni a Stellantis e cioè quello dello spostamento all’estero della sede legale e fiscale. La premier dovrebbe forse chiedersi come mai non solo lo la Fiat ma altre 12 società italiane – tra cui Eni ed Enel che sono società a controllo pubblico – hanno fatto la stessa scelta: non perché non amano l’Italia ma perché la Gran Bretagna come l’Olanda hanno un fisco più dolce, un mercato dei capitali più attraente e regole societarie più affini alle esigenze delle grandi imprese.

Anziché demonizzare gli Agnelli e chi porta il domicilio societario all’estero, la premier dovrebbe chiedersi perché avviene tutto ciò e perché l’Italia – con il fisco, la pubblica amministrazione, le regole societarie, la giustizia, la scuola, le infrastrutture e la criminalità che si ritrova – non è un Paese per le imprese e soprattutto non lo è per le grandi imprese che sono sempre meno, a differenza di quanto succede negli altri Paesi europei.

Ma questo implicherebbe l’addio al sovranismo economico e richiederebbe la capacità critica e autocritica di comprendere come funziona realmente il moderno capitalismo che ha sì bisogno di essere seriamente regolato ma non attraverso le invasioni di campo della politica.

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