‘Io sono Nijinsky’, al Teatro Trastevere di Roma, recensione di Giorgia Nicodemi

Liberamente ispirato ai Diari della stella della compagnia dei Balletti Russi, Vaslav Nijinsky (Kiev, 1889 – Londra, 1950), è andato in scena ieri, al Teatro Trastevere in Roma, Io sono Nijinsky, di e con Daniele Bernardi.

Grazie anche al prezioso contributo di Ledwina Costantini (scenografia e tessuti sonori), Luisa Beeli (costumi) e Raissa Avilés ( la voce fuori campo di Romola, la moglie), l’attore porta in scena la dolorosa vicenda del leggendario danzatore, improvvisamente impazzito dopo aver stravolto e dominato la scena della danza mondiale nei primissimi anni del ‘900.

Saint-Moritz, inverno del 1918-1919. Da un anno e mezzo trasferitosi in Svizzera in attesa che la guerra finisca, il ballerino Vaslav Nijinsky comincia a dare segni di squilibrio. Anche se non sono chiare le cause del male, più eventi sembrano concorrere al suo manifestarsi e uno pare assumere un ruolo particolarmente simbolico: la notizia della morte del fratello, malato di nervi fin dall’infanzia. Così, mentre il paesaggio elvetico si imbianca, Nijinsky prende a comportarsi in modo incomprensibile gettando una piccola comunità nel caos. E nel farlo redige febbrilmente un celebre diario, che sarà pubblicato solo in un secondo momento.

È la concrezione iconica della follia quella che, fin dal primo istante, Bernardi  porta in scena. Lo vediamo prendere forma, mentre emerge dal buio, in una dicotomia di nero e bianco, candore e oscurità, male e purezza, che ci accompagnerà per tutta la rappresentazione. Insieme a lui la Petrouchka, suo alter ego, cui dà pietosa ed allegorica sepoltura nella prima scena ma che è in realtà elemento onnipresente e funzionale al racconto, così come la voce della moglie Romola, cruciale testimone della parabola discendente del divino saltatore, e la testa del celebre Djagilev, l’impresario dei Balletti Russi, amante e tiranno, artefice e carnefice del mito del Dio della danza.

Nell’atmosfera sospesa che precede le feste, simboleggiate sul palco da un abete scheletrico e dei pacchi regalo-matrioska, lo spettatore assiste dunque alla genesi della follia, esplicitata nel suo tratto maggiormente distintivo: l’ecolalia. Parla Nijinsky, al nulla, a se stesso, a Petrouchka, a Romola e con Dio.

Ho sentito Dio per tutta la serata. Lui amava me. Io amavo lui. Eravamo uniti in matrimonio. In carrozza ho detto a mia moglie che quello era il giorno delle mie nozze con Dio”

 

Alla logorrea si alterna il silenzio: dove il multiloquio è figura del peccato e il silenzio è un atto epistemologico mancato, ancora una volta vediamo declinarsi la figura iconografica dell’insipiente, Dixit insipiens. La scrittura convulsa dei diari, ossessiva, indecente, struggente, disegna la complessa relazione tra salute e malattia e tra malattia e salvezza, concede al suo autore l’abbacinante coscienza dei mali del mondo e il lasciapassare per separarsene. Sono gli ultimi giorni del Nijinsky che fu, prima che il suo spirito si ritiri dal mondo.

La gente dirà che Nijinsky finge di essere pazzo a causa delle sue cattive azioni. Le cattive azioni sono tremende, e io le odio e non voglio commetterne. Prima ho fatto degli errori perché non capivo Dio. Lo  sentivo ma non capivo quello che facevano tutti.

Tutti diranno che sono un malvagio, ma io non voglio nuocere alla gente – sono loro che vogliono nuocermi.

Io vivo con Dio. Io sono venuto qui per essere d’aiuto – io voglio il Paradiso in terra. Per il momento la terra è un inferno. Io voglio infiammare il mondo e la sua gente, non spegnerli. 

Non mi piace mangiar carne perché ho visto uccidere agnelli e maiali. Ho visto e sentito la loro sofferenza.

 

Non sono una belva assetata di sangue. Io sono l’uomo. Dio è in me. Io sono in Dio.

 

Non può sfuggire allo spettatore attento, nella parabola della follia del Nijisky secondo Bernardi, un devoto omaggio alla catarsi della creazione, così come quello, delicatissimo, al maestro Masaki Iwana. Ma anche, la volontà di mettere in luce la sconcertante attualità di un contesto storico che, a distanza di un secolo , sembra essere immutato. La guerra, la malattia, il consumo sfrenato di carne, il commercio ossessivo. Gli stessi mali che straziavano l’animo di Nijinsky sono quelli che affliggono il nostro presente. Nulla è cambiato, nulla abbiamo imparato. Ed è un folle a dovercelo ricordare.

Io sono Nijinsky, è un viaggio commovente nei meandri di una follia che il bravissimo Bernardi rende con maestria e poesia, facendoci sporgere sull’abisso senza mai lasciarci cadere.

   

Giorgia Nicodemi

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