Autonomia differenziata e forti dubbi di Forza Italia. Mulè: ‘E’ una legge monca di pezzi fondamentali’

Non si placano le tensioni all’interno della maggioranza dopo l’approvazione del ddl Calderoli sull’Autonomia differenziata.  Giorgio Mulè, vicepresidente della Camera, in un’intervista stronca di fatto la riforma:  ‘L’Autonomia differenziata è una legge monca di pezzi fondamentali. O la completiamo,  o corriamo il rischio di essere bocciati al referendum’. Il deputato agita il timore sull’esito di un referendum abrogativo già annunciato dalle opposizioni.

Il presidente dem Stefano Bonaccini, in vista delle dimissioni da governatore dell’Emilia Romagna dopo l’elezione a Strasburgo, parla di “tempi strettissimi” perché l’Emilia Romagna possa unirsi al fronte delle altre quattro Regioni “rosse” disposte ad avanzare la richiesta di referendum abrogativo (ne servono cinque). Sul suo sostegno alla proposta referendaria, però, non ci sono dubbi:  ‘Il Pd si mobiliterà, e i dem, insieme a M5s, Avs, +Europa, Azione e Iv sono già al lavoro per raccogliere le 500 mila firme necessarie. Mentre resta ancora in campo l’ipotesi, sostenuta in primis dalla presidente della Sardegna Alessandra Todde, di un ricorso dei governatori alla Corte Costituzionale’.

Alla legge, spiega Mulè, mancano ‘prima di tutto la definizione dei Lep e i soldi per finanziarli’. Finché non verranno definiti, ammonisce, non potranno partire i negoziati tra Stato e Regioni. Sulla possibile assenza di risorse per i Lep, frena anche il capogruppo di Fdi alla Camera Tommaso Foti: ‘Se non ci sono soldi non si faranno le intese’. Mulè approfondisce quindi il rapporto tra esecutivo e governatori, richiamando al rispetto della ‘facoltà del Consiglio dei ministri di limitare il campo delle materie oggetto d’intesa’. Un riferimento velato ma non casuale, quest’ultimo, all’articolo 2 della legge approvata, plasmato anche grazie agli interventi di FdI e FI. Che attribuiscono al premier, così come ai ministri competenti, il potere di limitare il negoziato tra Stato e Regioni a singole materie.

Non appena la legge sarà firmata dal presidente della Repubblica e pubblicata in Gazzetta, i governatori leghisti sarebbero pronti a chiedere subito il trasferimento delle competenze almeno su alcune delle nove materie per le quali non sono previsti i Lep (rapporti internazionali e con l’Unione europea; commercio con l’estero; professioni; protezione civile; previdenza complementare e integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale; organizzazione della giustizia di pace). Mulè, però, lascia intendere che, anche su queste, l’ultima parola spetta all’esecutivo.

Fatta l’autonomia regionale differenziata occorre fare i Lep. Con annessi problemi di costi. Si può sintetizzare così il nodo gordiano da sciogliere per avviare l’effettiva devoluzione di maggiori competenze alle regioni a seguito dell’approvazione definitiva della cosiddetta legge Calderoli.  Il provvedimento è finalizzato a dare attuazione all’articolo 116, comma 3, della Costituzione, il quale prevede la possibilità che anche le regioni a statuto ordinario di ottenere “forme e condizioni particolari di autonomia” in relazione ad alcune materie espressamente individuate e attualmente assegnate alla competenza legislativa esclusiva dello Stato o concorrente.

In altre parole, la norma costituzionale apre ai territori ad autonomia ordinaria un varco per accedere a quella condizione di specialità finora appannaggio esclusivo di Valle d’Aosta, Friuli Venezia-Giulia, Trentino Alto Adige, Sicilia e Sardegna. Si tratta di una previsione inserita nella Carta con la riforma del Titolo V voluta dall’allora centro-sinistra, nel lontano 2001, e finora rimasta lettera morta, malgrado i tentativi esperiti negli anni scorsi da tre regioni del nord (Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna), nei primi due casi anche a colpi di referendum popolari. Le rivendicazioni autonomiste padane si sono scontrate, però, con la mancanza di un chiaro quadro attuativo che definisse in modo puntuale i passaggi procedurali e le condizioni per arrivare all’agognata devoluzione delle maggiori competenze. Per ovviare è stata approvata la nuova legge, per l’appunto rubricata “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione”. Si tratta di un provvedimento che assume, almeno in questa fase, una valenza essenzialmente procedurale, rimandando gli effetti sostanziali a una fase successiva.

Il prossimo tassello riguarda, infatti, la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (Lep). In base all’art. 3 i Lep devono essere definiti per quasi tutte le materie che possono essere devolute alle regioni. Fino a quando i Lep non saranno definiti, l’autonomia differenziata resterà una chimera.

Parliamo di parametri che dovrebbero indicare la soglia costituzionalmente necessaria e costituiscono il nucleo invalicabile per rendere effettivi tali diritti e per erogare le prestazioni sociali di natura fondamentale, per assicurare uno svolgimento leale e trasparente dei rapporti finanziari fra lo Stato e le autonomie territoriali, per favorire un’equa ed efficiente allocazione delle risorse e il pieno superamento dei divari territoriali nel godimento delle prestazioni inerenti ai diritti civili e sociali. In altri termini, i Lep dovranno misurare la quantità minima di prestazioni da garantire. Il punto è cruciale perché su di esso si è giocata finora la battaglia politica circa il reale impatto della riforma, che deve essere misurato sul piano finanziario. La domanda è: l’autonomia differenziata aumenterà i divari già oggi esistenti fra i diversi territori in termini di dotazione di risorse o no? Secondo la maggioranza no, mentre le opposizioni non mancano di evidenziare i rischi di rottura dell’unità nazionale. Il tema è assai complesso e rimanda ai costi.

I Lep si distinguono in quantificabili e non quantificabili. I primi sono quelli per i quali è possibile calcolare il fabbisogno standard e dunque il costo per la loro erogazione in ciascun territorio. I Lep non quantificabili corrispondono, invece, a prestazioni essenziali erogate da poteri pubblici che pur comportando la necessità di previsioni di spesa (prevalentemente di spesa corrente) non risultano caratterizzate da elementi idonei a consentire una precisa e puntuale determinazione del fabbisogno standard, territorio per territorio. Si pensi alle mense scolastiche o agli stipendi degli insegnanti. Anche per i Lep quantificabili il percorso è tutt’altro che agevole perché, come evidenzia la commissione Cassese, esiste un problema di misurabilità, in quanto la definizione dei fabbisogni standard si è finora basata sostanzialmente sui livelli storici di copertura dei servizi, sebbene, per alcune funzioni, il livello storico non sempre risulti coerente con la tutela dei diritti civili e sociali.

Riassumendo:

l’autonomia finanziaria presuppone la definizione dei Lep;

per i Lep che costano è necessario stanziare le relative risorse nei limiti consentiti dai vincoli di finanza pubblica;

la copertura deve essere garantita per tutte le regioni e non solo per quelle che chiedono maggiori competenze;

senza copertura le funzioni restano in capo allo Stato.

Come si nota, la strada è ancora lunga e difficile, perché di margini nei conti dello Stato paiono essercene pochi.

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