Riforma del premierato e parere di alcuni costituzionalisti

Il 18 giugno scorso, il Senato ha approvato in sede di prima deliberazione il disegno di legge costituzionale sul cosiddetto premierato. Già il titolo – Modifiche alla parte seconda della Costituzione per l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri, il rafforzamento della stabilità del Governo e l’abolizione della nomina dei senatori a vita da parte del Presidente della Repubblica – rivela l’obiettivo della proposta, dichiarato anche dalla Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni: garantire la stabilità degli esecutivi.

Il concetto è ribadito nella relazione di accompagnamento al disegno di legge, dove si afferma che l’instabilità ha prodotto finora “difficoltà di concepire indirizzi politici di medio-lungo periodo, di elaborare e attuare riforme organiche, di farsi carico, in ultima analisi, delle prospettive e del futuro della Nazione”. “La decisività del voto elettorale rispetto all’investitura della maggioranza”, secondo il governo, consentirebbe di superare tale instabilità.

Può essere utile verificare, attraverso i rilievi di alcuni costituzionalisti in audizione presso il Senato, se la proposta sia effettivamente idonea a garantire l’obiettivo perseguito.

La stabilità dei governi – ha affermato il professor Gaetano Azzariti in audizione al Senato – può essere intesa in tre significati, ciascuno dei quali “fa riferimento a fenomeni diversi. Stabilità come capacità di governo ed aumento dei poteri ad esso attribuiti; come autorevolezza della compagine ministeriale; come durata degli esecutivi”.

Quanto alla prima accezione, più che aumentare i poteri del governo bisognerebbe limitarli, se non proprio ridurli, secondo Azzariti. Infatti, gli esecutivi, “nel corso del tempo, si sono appropriati dei poteri degli altri poteri”, in primis quelli del Parlamento. Un riequilibrio sarebbe necessario, ma attraverso interventi diversi da quello in discussione. Interventi che, ad esempio, dispongano il monocameralismo, “per rispondere alla crisi evidente del bicameralismo paritario”; frenino “le prassi distorsive e compulsive dei voti di fiducia reiterati, dei maxiemendamenti onnicomprensivi”; introducano “corsie privilegiate” per determinate leggi, al fine di limitare i decreti-legge ai casi effettivi di straordinaria necessità ed urgenza.

Circa la seconda accezione di stabilità, la necessità di “autorevolezza della compagine ministeriale” è un tema legato, tra l’altro, alla “disaffezione del corpo elettorale”, alla «distanza tra popolo e la sua classe dirigente», alla “delegittimazione degli organi di governo del Paese”. Sono fenomeni “che devono certamente essere affrontati dal sistema politico, oltre che sul piano sociale e culturale”, ma “con misure diverse da quelle legate alla scelta del Capo dell’esecutivo”, afferma Azzariti.

Anche per il professor Enzo Cheli le cause di tali fenomeni sono da ricercare non in “difetti della macchina costituzionale, bensì nella fragilità del tessuto politico sottostante e nel grado di dissonanza che oggi si registra tra corpo sociale e istituzioni governanti”. Secondo Cheli, servirebbero interventi riguardanti “tanto la legge elettorale, specialmente ai fini di un necessario riavvicinamento dei cittadini al voto, quanto la disciplina ormai obsoleta dei partiti per una migliore definizione sia del loro funzionamento che del loro finanziamento”.

Quanto alla stabilità intesa come “durata degli esecutivi, che rappresenta una vera e non negabile debolezza della nostra forma di governo parlamentare”, non può essere risolta – a detta di Azzariti – da una riforma costituzionale come quella in discussione, connotata da rilevanti distonie. Ad esempio, la riforma introduce nell’ordinamento una forma di governo a elezione diretta del vertice dell’esecutivo, ma poi opera “una bizzarra riesumazione della forma di governo parlamentare”, di cui però aveva “decretato la morte con l’elezione diretta”. In altri termini, la necessità per il presidente del Consiglio di ottenere la fiducia da parte delle due Camere appare “ultronea rispetto alla legittimazione a governare conseguita dall’eletto dal popolo”. Peraltro, si tratta di una fiducia che mina il “conseguimento dello scopo della stabilità come durata”. Infatti, la prosecuzione della legislatura sarebbe, in sostanza, rimessa alla volontà del Parlamento, che potrebbe scavalcare quella espressa dai cittadini. Con buona pace dell’intento dichiarato nella relazione al disegno di legge, dove si dice che esso “assicura la stabilità nel tempo dell’incarico del Presidente del Consiglio, sancendone una durata quinquennale”.

Secondo la professoressa Carla Bassu, “l’elemento di stabilizzazione” individuato dalla riforma nell’elezione diretta del Presidente del Consiglio sarebbe indebolito, tra le altre cose, “dal contesto politico che contraddistingue la realtà italiana”. “L’elezione diretta del capo dell’esecutivo promuove stabilità e dunque governabilità solo nelle società politicamente pacificate, con sistemi solidamente e radicatamene bipolari o proprio bipartitici”. Né, per conseguire la stabilità degli esecutivi, basta disporre, come fa la riforma, che il premio di maggioranza sia attribuito alle liste collegate al premier vincente alle elezioni. Norme tese a sancire una stabilità formale non garantiscono una stabilità sostanziale “in scenari politici conflittuali e polarizzati come il nostro, dove anche all’interno delle coalizioni di maggioranza e opposizione non c’è pieno allineamento politico e ideologico”.

In tali scenari, secondo Bassu, l’elezione diretta si dimostrerebbe tale da “esacerbare più che quietare la conflittualità”. Basti pensare alla norma cosiddetta anti-ribaltone: in ipotesi di dimissioni del Presidente del Consiglio eletto – diverse da quelle in cui egli non ottenga all’inizio della legislatura la fiducia delle Camere o nel corso della legislatura gli sia revocata – lo stesso può essere sostituito con un altro parlamentare appartenente alla medesima coalizione. Tale norma consente ai partiti di maggioranza di togliere “lo scettro del potere all’elettorato”, accordandosi “per sostituirlo e annichilire dunque la volontà popolare a favore di quella delle forze di maggioranza”.

In questo modo, da un lato, si sminuisce “il voto popolare”, depotenziando l’intento della proposta: dare rilievo essenziale “alla decisività e al rispetto” di tale voto. Peraltro, il fatto che cittadini, dopo essere stati illusi di poter contare effettivamente con il loro voto, si vedano ancora una volta superati da “giochi” fra i partiti potrebbe alimentare il “marcato astensionismo” e la “sempre più evidente disaffezione verso la politica”, patologie che la riforma dichiara invece di voler sanare. Dall’altro lato, la possibilità per i partiti della coalizione vincente di destituire il premier eletto “innesca un alto tasso di conflittualità interno alla maggioranza che smentisce nei fatti le finalità dichiarate di stabilità”.

Dello stesso avviso è il professor Gustavo Zagrebelsky. La possibilità di un “secondo tempo”, “non più con il Presidente del Consiglio eletto, ma con un parlamentare della maggioranza scelto al suo posto è in puntuale contrasto con la ratio dell’intera riforma: garantire omogeneità e stabilità, e permettere ai cittadini, nelle urne, di fare loro stessi la scelta di colui (o colei) dal quale vogliono essere governati” per cinque anni. Invece, l’eventualità che il premier eletto possa essere sostituito, non solo non rafforzerebbe la stabilità “ma, al contrario, la minerebbe dall’interno, con buona pace del proposito di impedire i giochi di palazzo”.

Il rischio di “giochi di palazzo”, paventato da Zagrebelsky, si intravede in due ipotesi previste dalla riforma: quando il governo appena formato non ottiene la fiducia di Camera e Senato e il Quirinale gli ridà un’altra volta l’incarico; quando il presidente del Consiglio decide di dimettersi, ad esempio, nel caso di voto contrario su una questione di fiducia posta su un atto del governo e, non chiedendo di sciogliere il Parlamento e andare al voto, riceva un nuovo incarico dal presidente della Repubblica (che, in alternativa, può dare l’incarico a un altro parlamentare della stessa coalizione). In entrambi i casi “le Camere sono (o possono essere) chiamate a rivedere la propria posizione, dando o confermando la fiducia che, appena pochi giorni prima, era stata negata: in altre parole, a pentirsi come si chiede ai discoli di fare. Il senso di questo “mea culpa” sembra essere solo questo: costringere il presidente eletto a intavolare trattative con i partiti della maggioranza per nuovi equilibri e diverse distribuzioni o spartizioni di potere. Ma il maggior pregio dell’elezione diretta del presidente del Consiglio non doveva essere precisamente quello di evitare tutto ciò?», si chiede Zagrebelsky.

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