L’ex procuratore Pignatone indagato a Caltanissetta con l’accusa di avere insabbiato indagini su mafia e appalti

Giuseppe Pignatone, uno degli ex magistrati più autorevoli e prestigiosi d’Italia, è stato iscritto nel registro degli indagati dalla Procura della Repubblica di Caltanissetta con l’accusa di avere insabbiato le indagini su mafia e appalti,  sulle quali si erano concentrate le attenzioni di Paolo Borsellino,  e di avere favorito le cosche. Insieme a Pignatone, risultano indagati l’ex magistrato antimafia Gioacchino Natoli e il generale della Guardia di Finanza Stefano Screpanti. L’ex capo della procura romana è già stato ascoltato dai giudici nisseni.

Il dubbio è che sia stato Giuseppe Pignatone ad apporre a penna la dicitura “e la distruzione dei brogliacci” sul provvedimento con cui il collega Gioacchino Natoli il 25 giugno del 1992 aveva disposto la smagnetizzazione delle bobine delle intercettazioni telefoniche effettuate confronti dei fratelli Nino e Salvatore Buscemi. La Procura nissena, che ha iscritto l’attuale presidente del Tribunale vaticano con l’accusa di favoreggiamento alla mafia, ne è convinta ed ha incaricato il Ris dei carabinieri di Messina di disporre una perizia grafologica. Pignatone, convocato a Caltanissetta per essere sentito, si è avvalso della facoltà di non rispondere, salvo dichiarare ai giornali di essere innocente: ‘Ho dichiarato la mia innocenza in ordine al reato di favoreggiamento aggravato ipotizzato. Mi riprometto di contribuire, nei limiti delle mie possibilità, allo sforzo investigativo della Procura di Caltanissetta.

Nino e Salvatore Buscemi, imprenditori mafiosi vicini al capo dei capi Totò Riina, poi divenuti soci del gruppo Ferruzzi, sono  personaggi che verranno successivamente condannati in altre inchieste. Secondo l’accusa, Natoli, Giammanco e Screpanti, ciascuno nel proprio ruolo,  avrebbero aiutato i sospettati a “eludere le investigazioni”, svolgendo “un’indagine apparente” e in particolare chiedendo “l’autorizzazione a disporre attività di intercettazione telefonica per un brevissimo lasso temporale”, “inferiore ai quaranta giorni per la quasi totalità dei target”, e “solo per una parte delle utenze da sottoporre necessariamente a captazione”. Inoltre, non sarebbero state “trascritte conversazioni particolarmente rilevanti, da considerarsi vere e proprie autonome notizie di reato”. Dopo aver ritrovato i nastri negli archivi del palazzo di giustizia di Palermo, infatti, la procura di Caltanissetta ha ordinato il riascolto di tutte le intercettazioni, anche di quelle che all’epoca non furono trascritte.

Nei mesi scorsi questa vicenda è stata ricostruita davanti alla commissione Antimafia ed è stata fonte di roventi polemiche. Il primo a parlarne, nel settembre del 2023, è stato l’avvocato Fabio Trizzino, marito di Lucia Borsellino. Dopo aver legato quell’indagine al dossier Mafia e appalti, considerata dal legale e dagli ex vertici del Ros dei Carabinieri come il movente segreto della strage di via d’Amelio, Trizzino aveva accusato Natoli di aver “inspiegabilmente” chiesto di smagnetizzare le intercettazioni dei fratelli Buscemi. Accuse alle quali Natoli aveva replicato con un’intervista al Fatto Quotidiano e poi durante un’audizione sempre davanti alla commissione Antimafia. La smagnetizzazione delle bobine era una “prassi adottata dal Procuratore di Palermo dettata sia dalla necessità di riutilizzare le bobine smagnetizzate per la nota carenza di fondi ministeriali fortemente presente in quel periodo, sia per la mancanza di spazi fisici per la conservazione dei nastri”, aveva spiegato l’ex componente del pool Antimafia di Palermo. Segnalando, inoltre, come in effetti quelle bobine non furono mai smagnetizzate ma erano rimaste conservate in archivio. A essere scomparsi, però, sono tre dei quattro brogliacci riepilogativi degli ascolti. Che questa vicenda sia piena di misteri lo testimonia anche il documento con cui Natoli chiedeva di smagnetizzare quelle intercettazioni: una mano che al momento viene considerata ignota, infatti, aveva aggiunto a penna anche l’ordine di distruzione dei brogliacci. Quella calligrafia non appartiene nè a Natoli (che di quel documento rivendica come sua soltanto la firma) e neanche a Damiano Galati, storico funzionario del Centro Intercettazioni telefoniche. “Quanto, infine, all’ordine di distruzione dei brogliacci, lo stesso non è riferibile alla mia persona, essendo stato aggiunto a mano da qualcuno con una calligrafia che, all’evidenza, non è la mia, dopo la consegna all’Ufficio Intercettazioni in data 25 giugno 1992”, ha spiegato l’ex pm davanti all’Antimafia.

Il dubbio, ripeto, è che sia stato Giuseppe Pignatone ad apporre a penna la dicitura “e la distruzione dei brogliacci” sul provvedimento.

L’ex procuratore di Roma, insieme all’allora procuratore di Palermo Pietro Giammanco, avrebbe istigato Natoli a non svolgere accertamenti sull’indagine che era stata avviata dalla Procura di Massa Carrara, e poi confluita nel procedimento mafia-appalti, per favorire esponenti mafiosi come l’imprenditore palermitano Antonino Bonura. Natoli e l’allora capitano della Guardia di Finanza, adesso generale di corpo d’armata, Stefano Screpanti, sarebbero stati gli esecutori di tale disegno criminoso finalizzato quindi ad aiutare i Buscemi, Bonura, l’imprenditore e politico Ernesto Di Fresco e gli imprenditori Raul Gardini, Lorenzo Panzavolta e Giovanni Bini (gli ultimi tre al vertice del Gruppo Ferruzzi) ad eludere le indagini a loro carico.

Nino Buscemi e Franco Bonura, i signori del cemento che sono al centro dell’inchiesta su Natoli e Pignatone. Secondo i pm di Caltanissetta avrebbero beneficiato dell’insabbiamento di un fascicolo nel 1992. Erano vicini ad esponenti politici quali Di Fresco Lima e Ciancimino. Hanno costruito grandi ricchezze solo in parte sequestrate.

‘Quello è un duro, meglio di un vero uomo d’onore’. Il virgolettato appartiene a Nino Buscemi, fratello di Salvatore, capomafia della famiglia di Passo di Rigano, a Palermo. Imprenditore per conto di Cosa nostra, quando pronuncia quella frase Buscemi si riferisce a Lorenzo Panzavolta, detto Panzer: nato a Ravenna nel 1922, aveva fatto il partigiano, si era fatto le ossa nelle cooperative rosse prima di diventare uomo di fiducia di Serafino Ferruzzi. Poi, con la morte del fondatore, continua a lavorare per il gruppo di Ravenna quando al comando arriva Raul Gardini.  Panzavolta, al vertice della Calcestruzzi, all’epoca società del gruppo Ferruzzi, ha stretto un accordo con la famiglia Buscemi per ottenere l’incontrastato sfruttamento delle cave in Sicilia. E in questo modo che alcune aziende del gruppo Ferruzzi-Gardini entrano praticamente in società con Cosa nostra, aggiudicandosi una fetta dei miliardari appalti pubblici in una terra dove a reggere il grande gioco delle tangenti non ci sono solo imprenditori e politici, ma anche gli uomini di Riina. È per questo motivo che l’ex partigiano Panzer, l’uomo di Gardini nel mondo degli appalti, sarà condannato in via definitiva per concorso esterno a Cosa nostra.

Angelo Siino, ex pilota di rally che correva con lo pseudonimo di Bronson, era il “ministro dei Lavori pubblici” di Cosa nostra: da pentito ha svelato i segreti del “tavolino“, cioè il sistema che regolava gli appalti in Sicilia. Fino agli anni ’80 Cosa nostra si era sempre interessata al mondo dei lavori pubblici, ma spesso lasciava gli affari in mano ad aziende e a partiti amici, limitandosi poi a “mungere” gli imprenditori e a chiedere favori ai politici. Intorno al 1986, però, nasce un nuovo sistema: i vincitori degli appalti vengono decisi in anticipo grazie agli accordi tra imprese e politica. I lavori vengono assegnati con ribassi minimi, in modo da ottenere più soldi da spartire. È lo stesso meccanismo che si era sviluppato a Milano e a Roma e che verrà poi svelato da Mani pulite. Solo che a Palermo aggiungono una terza componente: Cosa nostra.

È questo il “tavolino“, attorno al quale si siedono i politici, gli imprenditori e i mafiosi. Il padrone di tutto il sistema è Riina, dittatore incontrastato di Cosa nostra che su ogni affare percepisce lo 0,8% di tangente personale: la chiamano la tassa Riina. Alla gestione del tavolino, invece, si alternano diversi personaggi: da Siino si passa a Filippo Salamone (imprenditore di Agrigento e fratello di Fabio, il pm di Brescia che farà la guerra a Di Pietro) e a Pino Lipari. Ed è quest’ultimo che ha l’idea di allargare il “tavolino” alle aziende del Nord Italia. Per spartirsi una fetta della ricca torta siciliana scendono in massa: arrivano la Fiatimpresit del gruppo Agnelli, la Lodigiani di Milano, la Rizzani De Eccher di Udine, le coop rosse dell’Emilia Romagna. E pure la Calcestruzzi del gruppo Ferruzzi, cioè la prima produttrice di calcestruzzo d’Italia, che all’epoca era il primo Paese a consumare calcestruzzo in Europa. A guidare la società è Panzavolta, mentre a rappresentarla in Sicilia è l’ingegner Giovanni Bini. Ma i romagnoli non partecipano solo agli appalti. Fanno di più: entrano in società con le aziende mafiose. Già nel 1982 Panzavolta compra da Buscemi il 40 percento della cava Occhio di Palermo. Due anni dopo, quando ai Buscemi arriva un mandato di cattura e dunque cominciano a temere un sequestro dei beni, ecco che la società del gruppo Gardini acquista la Calcestruzzi Palermo, la società dei Buscemi. Per i giudici si tratta di una “una vendita simulata avente il solo scopo di evitare il sequestro e la conseguente confisca di alcuni terreni intestati alla Calcestruzzi Palermo”. Tecnicamente, dunque, il gruppo Ferruzzi diventa socio e prestanome delle aziende di Cosa nostra. Secondo Giovanni Brusca, il boia di Capaci poi diventato collaboratore di giustizia, “la quota dei grandi appalti spettante a Cosa nostra veniva attribuita per il tramite delle società facenti parte del gruppo Ferruzzi”.

Secondo la procura di Caltanissetta, Pignatone, Natoli, Screpanti e Pietro Gianmanco (deceduto sei anni fa) avrebbero insabbiato le indagini sui rapporti tra mafia e imprenditoria e precisamente sui rapporti tra gli imprenditori mafiosi Nino e Salvatore Buscemi e il gruppo Ferruzzi guidato da Raul Gardini. Secondo i magistrati quella inchiesta fu determinante per la strage di via D’Amelio. Gianmanco fu al centro di polemiche allorquando, nel 1990, il Csm lo preferì a Falcone alla guida della procura di Palermo. Caponnetto lo accusò di avere sostanzialmente affossato il pool antimafia. La vicenda che vede indagato Pignatone, attualmente giudice in Vaticano, fu  ricostruita davanti la Commissione nazionale Antimafia, nel settembre 2023, dall’avvocato Fabio Trizzino, marito di Lucia Borsellino.

Pignatone, a Palermo lavora a Palazzo di giustizia per oltre 30 anni. È stato uno dei collaboratori più vicini al procuratore Pietro Giammanco, insieme a Guido Lo Forte. Nel 1991 Giovanni Falcone nei suoi diari scrive di forti contrasti con lui, che lo costringono ad andare via da Palermo.

Nel 1997 la Procura di Caltanissetta aprì un’indagine nei suoi confronti e dei magistrati Pietro Giammanco, Guido Lo Forte e Ignazio De Francisci per i reati di abuso e corruzione di atti giudiziari, a seguito delle accuse del collaboratore di giustizia Angelo Siino, il quale sosteneva di averli corrotti per ricevere una copia del rapporto del ROS dei Carabinieri su “Mafia e Appalti” depositato in Procura. Nel 2000 l’indagine è stata archiviata del GUP del tribunale di Caltanissetta perché non si riuscirono a trovare prove alle accuse di Siino.

Nel marzo 2012 è stato nominato dal CSM, con voto unanime, procuratore della Repubblica di Roma.

Conclude la sua esperienza attiva nella magistratura italiana il 9 maggio 2019 per raggiunti limiti di età.

Il 3 ottobre 2019 Papa Francesco lo ha nominato presidente del Tribunale di prima istanza dello Stato della Città del Vaticano.

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