Giorgia Meloni nel corso del suo comizio elettorale a Caserta. Napoli 18 Settembre 2022. ANSA/CESARE ABBATE

Giorgia Meloni e le divergenze nascoste in FdI

Il vicepresidente della Camera, Fabio Rampelli, ha difeso Mollicone, suggerendo la presenza di una corrente romana del partito, nota come i “gabbiani”, che rappresenta una voce critica all’interno di FdI. La tensione tra Rampelli e Meloni risale a quando la leader del partito ha escluso il gruppo di Rampelli dal governo nazionale e regionale del Lazio. Affidando ruoli chiave a persone di sua fiducia come sua sorella Arianna.

Questa situazione di tensione è ulteriormente complicata dalla linea politica altalenante adottata da Meloni, che oscilla tra il conservatorismo liberale e il sovranismo più estremo. Questa incertezza potrebbe spingere gli esponenti più inquieti del partito a prendere posizioni più decise, cercando di influenzare la direzione del partito.

Le critiche di Rampelli alle richieste di dimissioni di Mollicone, avanzate dalle opposizioni, sembrano indirizzate anche ai vertici di FdI, suggerendo una sfida indiretta alla leadership di Meloni. Parallelamente, il viceministro degli Esteri, Edmondo Cirielli, ha adottato una posizione più moderata, indicando un altro segnale di divisione interna.

In aggiunta, voci critiche si sono levate anche dalla “sinistra” del partito. Proponendo una linea di collaborazione con i Popolari e i liberali europei e mettendo in discussione l’uso del simbolo della Fiamma. Storicamente associato alla destra italiana. Questa proposta, avanzata dal deputato Andrea De Bertoldi, è stata ignorata dalla dirigenza, ma segnala un ulteriore punto di tensione.

Pare che la premier  sia rimasta molto scontrosa  con il dirigente del suo partito Federico Mollicone, responsabile Cultura di FdI, per quell’uscita sull’innocenza, a suo parere, dei condannati per la strage di Bologna: «È stato un autogol». Le parole di Mollicone hanno in effetti reso ancor più furibonda una polemica che tuttavia era già divampata per le parole della stessa premier in risposta alle accuse di Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione parenti delle vittime, nel corso del quarantaquattresimo anniversario della strage.

Bisogna però fare chiarezza: ad avviare la polemica, con una vera e propria provocazione alla quale palazzo Chigi non avrebbe potuto non rispondere, è stato Bolognesi, ex parlamentare del Pd, seguito a ruota dalla segretaria Elly Schlein e da una foltissima pattuglia di esponenti dell’opposizione.

Bolognesi aveva attribuito a Licio Gelli e alla P2 la responsabilità della strage, e questo dicono in effetti le sentenze anche se sulla base di elementi molto deboli, dunque le parole di Bolognesi erano del tutto giustificate. Molto di meno lo era però l’aggiunta per cui il governo, con la riforma della Giustizia, starebbe attuando proprio il progetto del  regista della strage e ancora di meno l’accusare il medesimo governo di avere al proprio interno “a pieno titolo” le radici di quella strage. Un governo accusato di essere composto dagli eredi dello stragismo, impegnati peraltro a realizzare gli obiettivi dei registi dello stragismo non avrebbe potuto evitare la replica, né definire meno che “molto gravi” le parole di Bolognesi.

L’Italia non è certo il solo Paese in cui, in questa fase, la denuncia del fascismo alle porte sia adoperata come strumento di propaganda elettorale. È stato così in Francia, e il secondo turno delle elezioni dimostra che la formula ha funzionato. È così negli Usa, e non possiamo ancora sapere se una divisione profondissima e la chiamata alle armi e alle urne contro Trump, indicato e considerato da mezzo Paese una minaccia esiziale per la democrazia, permetterà a Kamala Harris di recuperare lo svantaggio accumulato dai Democratici con la candidatura Biden.

L’Italia però è in situazione diversa. Da noi infatti l’allarme rosso per la democrazia in pericolo ha iniziato a suonare, spesso a distesa, molto prima che nel resto dell’Occidente: almeno da metà anni ‘ 90, quando Berlusconi è stato dipinto come protofascista ma anche mafioso, il nemico per eccellenza. Non c’è solo il caso eclatante del Cavaliere però.

La Lega di Bossi era fascista, tanto che il capogruppo del PdS D’Alema propose addirittura di sospendere le elezioni a Mantova e Varese, nei primissimi anni ‘ 90, per evitare che il nuovo fascismo se ne impossessasse. Salvo poi promuovere la Lega a costola della sinistra quando tornava utile. Anche se nessuno lo ricorda volentieri, a sinistra, il M5S è stato a lungo dipinto, soprattutto dopo la vittoria nelle elezioni del 2018 e non da tutti ma da molti, come il covo delle nuove SA. Nel 2019 sembrava normale disquisire sulla maggior somiglianza di Matteo Salvini con Benito Mussolini o direttamente con Adolf Hitler. In questo lungo lasso di tempo, la guerra civile mimata non ha mai aiutato la sinistra. Ha vinto le elezioni una volta, nel 1996, esclusivamente perché la destra era divisa, e un’altra nel 2006, per finta.

Il M5S ha continuato a vincere fino a che non si è semidistrutto da solo per manifesta incapacità. Salvini è stato in effetti fermato ma solo per cedere il posto al partito di Giorgia Meloni, il più a destra nello schieramento politico. Insomma sarebbe opportuno domandarsi se in Italia la radicalizzazione estrema e la trasformazione della lotta politica in una sorta di scontro di civiltà convenga alla sinistra. Berlusconi, che di propaganda ne capiva più di chiunque altro, era evidentemente convinto del contrario: faceva il possibile per presentare la lotta politica esattamente in quei termini ma, a differenza, degli avversari, se ne avvantaggiava davvero.

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