“La letteratura invisibile. I giuristi scrittori di Roma antica” di Dario Mantovani

Prof. Dario Mantovani, Lei è autore del libro La letteratura invisibile. I giuristi scrittori di Roma antica, edito da Laterza. Nelle attuali storie della letteratura latina, ai libri dei giuristi è di norma riservato poco o nessuno spazio: com’è potuto accadere che questa letteratura imponente e dall’identità così spiccata sia poi diventata quasi invisibile?

La letteratura invisibile. I giuristi scrittori di Roma antica, Dario MantovaniLe opere dei giuristi romani sono state vittime del loro successo. Un successo straordinario, che le accompagna dal Medioevo, almeno dall’XI secolo. Fu allora che comincia a essere utilizzato in modo sempre più intenso il Digesto, cioè l’antologia dei libri dei giuristi romani, compilata dall’imperatore Giustiniano nel VI secolo d.C. Giustiniano aveva raccolto e ordinato quei libri (di qui il nome Digesto, da digerere, “distribuire”, “organizzare”) perché era consapevole che costituivano una parte importante del diritto applicato nel mondo romano ancora alla sua epoca. Come si era arrivati fin lì? Nel corso dei secoli – in particolare dal II secolo a.C. al III d.C. – i giuristi, cioè degli esperti di diritto (ius), avevano svolto il compito di prestare la loro consulenza a privati, magistrati e funzionari, spiegando loro quale fosse il diritto applicabile in ciascuna situazione. A Roma esistevano molti tipi di norme, leggi votate dal popolo, plebisciti approvati dalla plebe, pareri del senato, editti dei magistrati incaricati di amministrare la giustizia, norme emanate dagli imperatori, a partire da Augusto e in misura sempre maggiore con Adriano e gli imperatori seguenti. I giuristi coordinavano ed elaboravano questo insieme di fonti ed esprimevano la loro opinione anche su casi che non trovavano in esse una risposta diretta. Dico “opinione”, perché i giuristi si limitavano ad esprimere il loro parere: ai destinatari il compito di seguirlo o meno. Ma l’autorevolezza contava. Erano dunque centrali nell’interpretare il diritto e anche nel renderlo accessibile al pubblico. Alcuni di questi giuristi mettevano per iscritto le loro risposte e riflessioni, dando così vita a una letteratura. Al tempo di Giustiniano questo filone letterario ammontava, quantitativamente, a circa 2000 rotoli di papiro, una vera biblioteca per dimensioni (per dare una termine di paragone: si calcola che la biblioteca municipale di Timgad, i cui suggestivi resti si possono visitare in Algeria, conteneva all’incirca 10.000 rotoli, che coprivano, si può immaginare, tutti i generi di libri, sia greci sia latini; questo dà un’idea, anche se del tutto approssimativa, di quale massa rappresentassero i 2000 rotoli che costituivano i libri dei giuristi). Ora, dal Medioevo, il Digesto di Giustiniano divenne il principale punto di riferimento per gli studi giuridici. Sappiamo tutti che l’università, intesa come centro di insegnamento superiore, nasce a Bologna (la data convenzionale è il 1088). L’università nasce proprio come studio e approfondimento del Digesto di Giustiniano (e degli altri volumi fatti comporre da Giustiniano insieme al Digesto, che formano nel loro insieme il Corpus Iuris Civilis). Le università si diffusero in seguito nella maggior parte dell’Europa. Gli studenti divennero avvocati e giudici, e così il diritto romano si impose quasi ovunque come diritto applicato nei tribunali e nelle amministrazioni. Soprattutto, fornì al mondo medievale e poi a quello moderno la forma stessa del diritto, le sue parole, i suoi concetti. I contenuti possono cambiare, ma ancora oggi pensiamo in gran parte il diritto così come lo hanno escogitato i giuristi romani. Ma è proprio questo successo straordinario che ha segnato la sorte dei libri dei giuristi, per tornare alla domanda. I lettori non “vedono” più le opere originarie (come invece avviene per esempio con Cicerone o Tacito) bensì vedono il Digesto, dentro il quale le opere dei giuristi sono sminuzzate, ridotte a frammenti. Solo un paio di opere (in particolare, le Istituzioni di Gaio), ci sono giunte più o meno integralmente, fuori del Digesto. Il successo accecante del Digesto, da una parte, e la riduzione a forma frammentaria, dall’altra, hanno insomma reso la letteratura prodotta dai giuristi romani quasi invisibile ai nostri occhi. Influente come pochi altri prodotti intellettuali dell’antichità, ma quasi invisibile. A ciò si aggiunga che, trattando di diritto, vi è un po’ di renitenza diffusa ad accostarsi a questi libri da parte di chi non ha studiato giurisprudenza, temendo che siano troppo tecnici, ostici. In realtà, attraverso i libri dei giuristi si assiste a migliaia di scene di vita quotidiana della Roma antica, a scelte economiche, delitti, questioni di famiglia, successioni, il tutto trattato dai giuristi con lo spirito di risolvere i conflitti e dare alla compagine sociale coerenza e giustizia. Nei loro scritti questi conflitti sono affrontati con argomenti razionali, sotto il segno dell’equità, con una prosa limpida, ispirata alla brevità e alla precisione. Non si può che augurarsi che questo prodotto della cultura latina, così caratteristico e anche così istruttivo, venga riscoperto, a cominciare dagli anni del Liceo, e da un pubblico interessato a conoscere come si possano affrontare ragionevolmente i conflitti.

Che relazione intercorre, nella Roma antica, tra diritto e filosofia?
Una relazione di odio e amore, nella quale è il diritto soprattutto a sentirsi attratto e sottovalutato. La filosofia, nei suoi vari aspetti, ma soprattutto quella morale – che si occupa del comportamento umano, indicandoci come dobbiamo agire per orientarci al bene – rappresentava nell’antichità greca, ma anche romana, il vertice del sapere. Il giurista Ulpiano, in un passo scritto all’inizio del III secolo d.C., in cui si rivolgeva a giovani per motivarli allo studio del diritto, osservava che nel perseguire questo compito di “rendere gli uomini migliori” il diritto è superiore alla filosofia, perché non si limita a indicare solo a parole come agire, e a distinguere in teoria cosa sia equo e cosa iniquo, ma si serve anche concretamente di pene e di incentivi. Insomma, persegue gli stessi fini della morale, ma con più efficacia. E Ulpiano non manca di osservare, maliziosamente, che spesso gli stessi filosofi non mettono in pratica quel che predicano: insomma, la giurisprudenza, a suo dire, è l’autentica filosofia, non un’apparenza. Questo “disputa fra arti” svolta da Ulpiano nel III secolo è un motivo che riprende un tema già presente in Cicerone, il quale diceva che le brevi Dodici tavole – la legge approvata nel 451-450 a.C. e che ancora ai suoi tempi si imparava a memoria nelle scuole – valeva più di tutti i libri dei filosofi messi insieme, per questioni morali e politiche affrontate e risolte. In queste affermazioni si mischiano molti moventi: l’orgoglio di ceto di un giurista come Ulpiano, che voleva trasmetterlo come sprone ai giovani che si rivolgevano allo studio della giurisprudenza; la necessità di confrontarsi con il prestigio della filosofia; il desiderio di Cicerone di contrapporre al più alto prodotto intellettuale greco e ellenistico, la filosofia, un altro sapere, quello del diritto, che era sentito come tipicamente romano (o almeno che a Roma aveva raggiunto livelli molto più elevati e sofisticati che nelle città greche). Come che sia, è in qualche modo una rivalità che continua anche oggi, dato che il diritto rivendica per sé uno statuto di scienza che gli viene spesso negato. Per tornare ai giuristi romani, essi conoscevano in generale bene la filosofia greca ed ellenistica o, almeno, avevano con essa una sufficiente familiarità, acquisita nelle scuole di retorica. E spesso si servono della filosofia nei loro ragionamenti: ma non per affidare alla filosofia la soluzione dei problemi (anche perché spesso i filosofi divergono su come risolvere i dilemmi), semmai per inquadrarli e meglio maneggiarli. Ad esempio, di fronte alla questione se sostituire un giudice renda o meno il collegio giudicante “un altro” rispetto a quello originario, i giuristi (in particolare, un giurista di poco più giovane di Cicerone, Alfeno) iniziano a inquadrare il problema ricordando che “le cose” possono essere di tre tipi, unitarie (ad esempio un sasso) oppure composte di elementi fra loro uniti fisicamente (una nave) o infine composte di elementi separati ma uniti concettualmente (un popolo). Era una tripartizione elaborata in particolare dagli Stoici. I giudici – dice Alfeno, sfruttando questa tripartizione filosofica – sono come il popolo, che resta il medesimo anche se cambiano uno o al limite tutti i suoi componenti. È la filosofia a decidere, allora? No. Questa decisione è in realtà ispirata da un criterio giuridico: se non fosse così, anche noi – prosegue Alfeno – non saremmo mai gli stessi, ieri e oggi e domani, visto che ci rinnoviamo continuamente (oggi diremmo che le nostre cellule si rinnovano). Ma se gli uomini e le donne non rimanessero mai gli stessi – è questo il punto implicito e fondamentale per il giurista, quello che regge tutta la decisione – verrebbe meno la stabilità del soggetto di diritto, debitori, creditori, proprietari, mariti, mogli… conclusione assurda, dunque anche il collegio resta “il medesimo” nonostante i cambiamenti. Il diritto, in fondo, è la tecnica della stabilità, che permette di orientarci nel mondo che ci mette sempre di fronte a cambiamenti. Anche per questo uso “trasformativo” della filosofia, i libri dei giuristi riservano sorprese interessanti.

Fritz Schulz sosteneva che i giuristi romani nutrissero «una ostinata avversione per la storia»: a cosa si deve l’apparente mancanza di senso storico rimproverata ai giuristi romani?
Forse al fatto che gli storici del diritto romano preferiscono pensare ai giuristi attribuendo loro le caratteristiche di “sacerdoti della giustizia” (era del resto una qualifica un po’ pomposa coniata da Ulpiano), tutti dediti ai loro compiti senza distrazioni. Come se interessarsi del mondo intorno o della filosofia o appunto del passato, della “storia”, non fosse invece essenziale per meglio situare ed elaborare le loro soluzioni. In fondo, nel negare ai giuristi romani l’interesse per la storia c’è, da parte di chi nutre questa idea, un atto di amore, ma di amore mal inteso. È come volere proporli come il modello del “puro giurista”, cui si dovrebbero ispirare i giuristi di tutti i tempi. Ma si sa che il diritto vive nella rete della cultura e degli interessi. Il vero pregio dei giuristi romani è stata la loro capacità di non restarne impigliati, ma di trasformare tutti gli elementi che assorbivano in un discorso coerente e controllabile razionalmente (lo abbiamo visto a proposito della filosofia).

Ma l’opinione di Schulz – studioso geniale che su questo come su molti altri aspetti ha fatto scuola – è anche determinata dallo stato delle nostre fonti. Come sappiamo, la maggior parte dei testi di giuristi ci è giunta tramite il Digesto di Giustiniano, un’antologia. Giustiniano voleva fare opera di legislatore, inserendo nel Digesto solo l’essenziale: come disse Dante, “d’entro le leggi trass[e] il troppo e ‘l vano”. Fra ciò che giudicava “troppo e vano” (dal suo punto di vista di legislatore, non a torto) c’erano proprio notizie le storiche contenute nei libri dei giuristi. Si può rendersene facilmente conto confrontando il Digesto con le Istituzioni di Gaio, un manuale scritto intorno al 161 d.C., che ci è giunto fortunatamente quasi completo in un palinsesto conservato a Verona. Pur essendo un breve manuale, contiene molte notizie storiche – ovviamente, secondo il tipo di coscienza storica degli antichi, che non necessariamente coincide con il nostro – che ci fanno comprendere quante altre ve ne dovessero essere in libri più sviluppati, e che invece Giustiniano ha fatto eliminare al momento di comporre il Digesto. Insomma, la domanda se i giuristi romani si interessassero o no alla storia ha una duplice valenza: da un lato, ci spinge a interrogarci sulle nostre idee, sul rischio di proiettare sulle fonti le nostre concezioni (come quella del “giurista ideale” isolato dalla realtà); poi, ci fa capire che il passato lo conosciamo solo nei limiti della documentazione che ce ne è pervenuta, che è molto selettiva. Quindi, fare storia del diritto è anche fare storia dei testi.

Quale contributo offrono, alla conoscenza della letteratura giuridica romana, le Istituzioni di Gaio?
Lo abbiamo appena visto per la questione delle notizie storiche. Lo stesso vale con altre notizie che Giustiniano ha soppresso. Per esempio, è da Gaio che conosciamo le formule del processo, un aspetto cruciale, che Giustiniano ha eliminato dai libri dei giuristi. Lo stesso vale anche per le leges publicae, le leggi votate dal popolo (e i plebisciti della plebe), che riguardavano anche il diritto privato. Gaio ricorda un certo numero di nomi e di contenuti di queste leggi (anche se dice che ve ne erano altre che non riporta); ebbene, il numero di quelle ricordate da Gaio è più alto di quelle ricordate nel Digesto di Giustiniano, benché quantitativamente il manuale di Gaio sia molto più breve del Digesto. La conclusione da trarre, che a me pare ovvia, ma che ad altri studiosi invece lo sembra meno, è che anche le leggi pubbliche sono state soppresse nel Digesto, e che in origine i libri dei giuristi ne riportavano molte di più. Il che, tra parentesi, ci dice che anche a Roma la legge aveva un ruolo importante, anche nell’ambito del diritto privato: del resto, le Dodici tavole erano per loro il simbolo del diritto.

Ma le Istituzioni di Gaio (per meglio dire: il palinsesto di Verona che ce ne ha riportata una copia) non sono solo un contenitore di notizie salvatesi dalle forbici dei compilatori del Digesto: sono un’opera compatta, un manuale per l’insegnamento magistralmente concepito (è il caso di dirlo: da un maestro, in tutti i sensi). Gaio sfrutta tutti gli espedienti che gli forniva la tecnica letteraria per rendere la sua esposizione ordinata, memorizzabile, chiara, il tipo di manuale su cui ogni studente di oggi sogna di preparare un esame. Fra le altre cose, si devono a Gaio (o, almeno, è lui che le ha sviluppate con più successo) alcune categorie, come quelle di persona e di res, che sono entrate nei codici moderni e nel nostro modo di pensare il diritto (oggi, non a caso ci si domanda se non sia opportuno fare passare le entità naturali dalla categoria di “cose” a quella di “persone”, per meglio tutelarle: io penso non sia una buona idea, ma questo è un altro discorso). Insomma, le Istituzioni di Gaio ci permettono di conoscere com’era fatta un’opera (quasi) intera, e ci fanno apprezzare a maggior ragione la limpidità e la vivacità di questa prosa.

Che rilevanza assume il paratesto nelle opere dei giuristi romani?
Per paratesto – e più precisamente peritesto – la teoria letteraria moderna considera quegli elementi che accompagnano un testo e ne guidano la fruizione da parte dei lettori, come il nome dell’autore, il titolo, una o più prefazioni, le illustrazioni, i titoli dei capitoli ecc. Ecco: i libri dei giuristi – intendo dire, le copie che ne circolavano nel mondo romano, dapprima su rotoli di papiro, poi nel formato “quaderno”, ossia il codex, su papiro o pergamena – erano ricchi di paratesto. In particolare, erano ricchi di titoli che indicavano i contenuti delle loro varie parti (ad esempio, dove si poteva trovare la trattazione della vendita dei beni del debitore all’asta o dove era trattata la figura del tutore onorario o ancora dove era commentata la legge Cornelia sull’omicidio). Lo erano al punto che un personaggio della celebre cena di Trimalcione, immaginata da Petronio nel I secolo d.C., per indicare in blocco i libri dei giuristi li chiama “libri rubricati”, insomma “libri con tanti titoli in inchiostro rosso”. Così dovevano apparire ai contemporanei, a colpo d’occhio. E anche dentro i vari titoli, si usavano degli accorgimenti – come lo spostamento della prima lettera fuori dal margine – per permettere al lettore di orientarsi più facilmente e trovare quel che gli serviva (sono i capita, i capitoli, brevi blocchi di testo distinguibili gli uni dagli altri). Queste caratteristiche diciamo così cromatiche e grafiche sono confermate direttamente dai papiri e dalle pergamene che sono sopravvissute. Una ricerca che ho condotto con l’aiuto di altri colleghi, specialmente papirologi e paleografi, ha permesso di ritrovarne vari esemplari, databili fra il II e il VI secolo d.C., che si aggiungono a quelli che erano già noti. Questi documenti ci dicono innanzitutto che i libri dei giuristi ‘classici’ furono copiati e letti fino all’età di Giustiniano, costituendo una sorta di struttura del diritto anche nella Tarda antichità. Esaminare questi reperti da vicino permette di sentirsi quasi a contatto con quel pensiero, con l’attività dei giuristi: fa capire che anche il pensiero giuridico dipende da una “materialità”. Insomma, conferma che è bene studiare il diritto romano non fermandosi al Digesto, ma volgendosi a riscoprire tutto quello che lo ha preceduto. Esaminando questi reperti, si fa poi una costatazione: pur con variazioni, il formato di queste copie dei libri dei giuristi che troviamo nei papiri e nelle pergamene era più o meno costante, con le rubriche in inchiostro rosso e i capitoli. Era dunque riconoscibile e come tale appunto doveva essere percepito dai contemporanei (come il personaggio della cena di Trimalcione di cui parlavamo in precedenza). È anche per questo, per questa riconoscibilità complessiva, che si può parlare di una letteratura giuridica romana. Credo meriti di non restare invisibile.

Dario Mantovani (Milano, 1961) è titolare della cattedra di Droit, culture et société de la Rome antique presso il Collège de France. Giurista, si occupa del diritto romano in prospettiva storica, come espressione del mondo antico e componente della cultura europea. Presso l’Università di Pavia dirige il Centro per la Storia dell’Università di Pavia, e ha curato l’opera collettiva Almum Studium Papiense. Storia dell’Università di Pavia, in 6 tomi (2012-2020). È membro dell’Istituto Lombardo e corrispondente straniero dell’Académie des Inscriptions et Belles Lettres. Presiede il consiglio scientifico dell’École française de Rome e dirige la rivista Athenaeum. Fra le sue pubblicazioni recenti: Pensiero e forme letterarie dei giuristi romani, in 3 volumi (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2024).

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