“Il diavolo. Storia iconografica del male” di Laura Pasquini

Prof.ssa Laura Pasquini, Lei è autrice del libro Il diavolo. Storia iconografica del male, edito da Carocci. Come scrive nella Premessa, trattando della raffigurazione del demonio nell’arte, «non vi è una forma, ve ne sono tante; non un’iconografia ma numerose e sempre variate anche nel medesimo contesto e nello stesso lasso temporale»: per quali ragioni il diavolo non trovò mai un’iconografia stabile con caratteri precisi e sempre inequivocabilmente ricorrenti?

Il diavolo. Storia iconografica del male, Laura PasquiniIl motivo non risiede in questioni di stile, ovvero nelle modificazioni del gusto cui le arti nel tempo si sono adattate, come potrebbe essere per le rappresentazioni degli angeli, dei santi o della divinità, concettualmente sempre uguali a se stesse. Il diavolo non è un’entità stabile e definita ma è piuttosto il risultato del tentativo dello spirito umano di trovare una spiegazione logica al problema del male. Ogni epoca ha avuto le sue disgrazie, le sue catastrofi, i suoi drammi, le sue guerre rovinose; ogni popolo nel tempo ha avuto i suoi nemici, le sue disfatte; ogni uomo durante la sua esistenza è tenuto a sperimentare dolori, antagonismi, fatiche e conflitti diversi per ciascuno. Il male non è univoco ma ha infinite cause e dunque infinite forme da mettere in fila, da cercare di comprendere e giustificare in base alle fonti testuali, alle leggende, soprattutto in base alla storia e agli eventi di cui rappresenta gli esiti dolorosi e drammatici e nei quali riesce ogni volta a impersonare il nemico di turno, adottando la maschera opportuna, quella più adeguata all’occasione.

Quali sono le prime testimonianze figurative del demonio nell’arte cristiana?
Le testimonianze figurative più antiche si collocano nella Tarda-Antichità e sono il frutto di una sperimentazione titubante che identificò le prime sicure ipostasi del male negli animali, già distinti nel testo biblico fra puri e impuri. Il cosiddetto “bestiario del Male”, di cui facevano ad esempio parte animali come il serpente, il maiale, il leone (con valenze duplici, anche positive) il drago e il basilisco, veniva impiegato nella predicazione per rafforzare gli exempla e facilitarne la comprensione: dai testi biblici, dai commenti dei Padri e dai sermoni, questo collaudato repertorio figurativo poté facilmente passare alle rappresentazioni iconografiche che li illustravano. Non mancano tuttavia episodi figurativi che invece si distanziano dal più semplice repertorio animale, per avventurarsi alla ricerca di forme nuove che fossero più specificatamente rappresentative di questa entità sfacciatamente mutevole. Nulla veniva inventato in realtà, venivano semmai riciclate e risemantizzate alcune forme già percepite come negative nella tradizione artistica più antica. Così, ad esempio, nel pavimento musivo della basilica teodoriana di Aquileia (IV secolo) il demonio trova la maniera di annidarsi fra le geometrie del mosaico sfoggiando una silhouette irriverente ma immediatamente riconoscibile per i cristiani del tempo, in quanto memore di quelle maschere apotropaiche, mostruose e sguaiate, adottate nei rituali pagani, tutt’altro che sopiti. Erano maschere pensate per evocare le divinità ctonie e percepite dagli scrittori cristiani dei primi secoli, al pari dei rituali dissennati in cui venivano impiegate, come espressioni di peccaminosa dissolutezza, di immorale bestialità e dunque come potenti manifestazioni del demoniaco.

Come influirono, sull’ideazione dell’immagine demoniaca, elementi desunti dalla tradizione folklorica e dalla religione popolare?
Gli elementi desunti dalla tradizione folklorica e dalla religione popolare esercitarono una notevole influenza sull’ideazione dell’immagine demoniaca, in specie per il fatto che tali suggestioni vennero recepite e rielaborate nella letteratura omiletica, nei sermoni, negli exempla e nelle vite edificanti dei santi, di certo abituati più dell’uomo comune a riconoscere il demonio e a contrastare le sue costanti insidie. In tali contesti, che probabilmente non offrivano nulla di rilevante sotto il profilo della demonologia di matrice dotta e teologica e che piuttosto si sostanziavano di elementi truculenti e fantastici, il diavolo si palesava sovente come figura attiva, terrifica, molesta ma anche goffa, ridicola, inetta, sempre invariabilmente sconfitta dall’uomo schermato dalla sua santità. Mentre dunque l’immaginario folklorico e popolare eludeva i complessi sofismi e le dispute a tema demonologico della teologia ufficiale, difficilmente rappresentabili, il medesimo contesto forniva per altro verso un ricco ed efficace repertorio tipologico, costituito invece da elementi grotteschi, bizzarri e comici, questi invece facilmente raffigurabili e pensati appositamente per suscitare spavento, terrore ma anche ilarità dinanzi al diavolo sconfitto. A questo ricco e variato repertorio si attingeva nel concepire i progetti decorativi, declinando l’immagine demoniaca in innumerevoli varianti nei manoscritti, sulle pareti affrescate, sulle pietre scolpite.

In che modo il diavolo invase prepotentemente l’orizzonte artistico dell’arte romanica?
In tutti i modi: nessuna forma d’arte poté esimersi dal raccontarlo, dal descriverlo. L’assalto del demonio era del resto continuo e pressante. La sua onnipresenza corrispondeva al sentire dell’uomo medievale, al suo rapporto quotidiano con il pensiero del male, capace di condizionarne i gesti, le azioni, le idee. Il diavolo animava le dispute teologiche, le elaborazioni dottrinali; calcava le scene come personaggio cruciale del dramma sacro e profano, irrompeva potente nei testi agiografici, in quelli omiletici, nella letteratura in genere e nelle vicende storico-sociali del tempo. Il demonio era l’incarnazione di ogni paura, aveva il volto di ogni nemico: era la guida di ogni miscredente e peccatore, era l’ebreo, l’eretico che voleva sovvertire la vera dottrina rivelata da Dio, il turco che minacciava la Palestina, il musulmano in genere, era chiunque si opponesse ai dettami della Chiesa di Roma. Non stupisce allora che questa presenza divenuta abituale, anzi ossessiva e sostanzialmente necessaria alla predicazione, dal pensiero declamato e dal testo scritto o recitato si sia riversata con la medesima irruenza sui cornicioni e i capitelli delle chiese, insinuandosi sui frontoni, fra i rilievi delle facciate, negli affreschi delle navate e in maniera sempre più sistematica nelle illustrazioni dei salteri e degli evangeliari.

Che rilevanza assunse, a partire dall’XI secolo, il tema del Giudizio universale?
A partire dal secolo XI la storia della salvezza e della dannazione eterne conquisterà sistematicamente nelle basiliche intere facciate scolpite, vaste controfacciate dipinte: il grande tema del Giudizio Universale convoglierà in spazi sempre più ampi e articolati ogni atavica paura, ogni speranza di redenzione. Saranno queste enormi installazioni figurate a raccontare in maniera sempre più dettagliata l’aldilà celeste e quello infernale: qui il diavolo potrà esprimersi in tutta la sua potenza e fierezza; benché relegato nelle grotte infernali, di quelle diverrà il padrone incontrastato, il giudice assoluto. Attorno alle sue forme sempre più imponenti, che sovente potranno competere con quelle del giudice divino, e alla sua mostruosità variamente composita si assieperanno i fedeli gregari e i peccatori brutalmente puniti, si diversificheranno i patimenti, si compartimenteranno gli spazi. È in queste costruzioni iconografiche, sempre più imponenti e strutturate, che il terrore smisurato nei confronti dell’eterno antagonista potrà dilatarne le dimensioni, amplificando gli aspetti mostruosi delle sue forme e convogliando l’attenzione dello spettatore sui terribili patimenti comminati a chi si è lasciato ingannare dalle sue lusinghe.

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Come si impose, tra le numerose maschere del demonio in epoca romanica e gotica, il vultus trifrons?
Si tratta in realtà di un’iconografia molto risalente. Numerose divinità solari e onniscienti, venerate ancora fra i Celti e nella Gallia romana, venivano difatti rappresentate con tre teste o tre facce evocative dell’infinito potere di quelle entità superiori, dalle sensibilità aumentate, capaci di ricordare il passato, percepire il presente e prevedere il futuro. Divinità tricefale erano note nelle regioni balcaniche, tra gli slavi del Baltico, nella Grecia ellenistica, in un’area vastissima dal Mar Nero al Mare del Nord; e poi in Asia centrale, dal Caucaso all’India sino al Giappone. Per quando evocative di solarità e onniveggenza, queste potentissime maschere tricefale, così diffuse nei culti pagani, vennero evidentemente interpretate dalla cultura cristiana non certo come simboli plurimi del sole invincibile, quanto piuttosto delle tenebre, personificazioni cioè di ogni intenzione più abominevole e vile: esse erano in sostanza espressioni inammissibili della sfida arrogante del demonio all’unica triformità plausibile, quella divina. Scolpire un arcigno volto triforme sulla facciata di una basilica, in un portale o tra i fregi del chiostro vicino, significava in parte esorcizzarlo, mettendo in guardia il buon cristiano sulla pericolosità di quell’entità subdola e malvagia che, manifestandosi attraverso una triformità sacrilega, opposta a quella celeste, voleva ingannare l’animo umano. Il grande successo di questa iconografia si deve tuttavia al fatto che Dante nel canto XXXIV dell’Inferno la scelse per la rappresentazione del suo Lucifero, impotente e disperata parodia dell’inutile sfida alla perfezione della divinità una e trina. La prima cantica della Divina Commedia, le cui copie manoscritte venivano diffuse già a partire dal 1313, contribuì enormemente alla diffusione figurativa del diavolo a tre facce e furono numerosi gli artisti che, sulla scia del testo dantesco, scelsero questa fisionomia triforme per rappresentare il principe dell’Inferno.

Come si evolverono le successive rappresentazioni di Satana e che forme assunsero nelle regioni centrali dell’Europa?
Nel corso del Medioevo l’immagine del diavolo era divenuta parte integrante della cultura cristiana. Diavoli enormi, dalle forme bestiali e composite, minacciosi ma anche grotteschi, talvolta persino ridicoli e goffi, erano stati replicati a dismisura, come se riproducendone frequentemente le fattezze li si potesse in qualche maniera esorcizzare. Il diavolo rimaneva tuttavia lontano, esterno, diverso, confinato in un “altrove” rassicurante dal quale ci si poteva tenere a debita distanza attraverso la preghiera e il raccoglimento. Un nemico potentissimo ma riconoscibile e soprattutto distante. Fu la grande caccia al diavolo ad avvicinare la tana, fu l’ossessione del maligno ad aprirgli il varco, la santa Inquisizione a umanizzarlo. Incarnato nell’eretico, nel mago, nella strega, ossia in esseri considerati immondi e contro natura ma pur sempre umani, il diavolo poté oltrepassare i limiti che nei primi secoli del Medioevo non aveva mai potuto valicare. La stessa mentalità da fortezza assediata che aveva indotto l’uomo del Medioevo a difendersi da questo attacco concentrico alla cristianità attuato da eretici e miscredenti, aveva in definitiva infranto le antiche e solide barriere che separavano il soprannaturale dal tangibile e vero e aveva ufficialmente accolto il grande nemico nel mondo degli uomini. Questa incursione del diavolo nel reale e contingente, nell’umano, viene tuttavia risolta in maniera difforme nell’arte a seconda dei contesti, delle diverse interpretazioni di teologi e pensatori ma soprattutto in base all’evoluzione della cultura visiva nell’area geografica in cui operavano gli artisti. L’arte dell’Europa centro-settentrionale, poco propensa alle razionalizzazioni, peculiari invece del Quattrocento italiano, concesse al diavolo lo spazio dell’inconscio, dell’incubo che si fa tangibile e doloroso, dell’inquietudine mostruosa, mutando l’inferno in un metamorfico e spaventoso mondo reale; il nostro Rinascimento, centrato sulla supremazia dell’intelletto, rapito dalla perfezione e dall’equilibro delle forme umane e dalle esattezze prospettiche, lasciò che anche il demonio nelle sue infinite metamorfosi si appropriasse di una fisicità piena e naturale, del tutto simile a quella umana, aprendo la strada a una delle sue più pericolose metamorfosi, propiziandone, cioè, una lenta ma inesorabile umanizzazione.

Cosa significò, per il demonio, il Secolo dei Lumi e come, invece, a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, si risvegliò l’attenzione nei suoi confronti?
Il Secolo dei Lumi provò con ogni mezzo a tacitare il demonio: il XVIII sarebbe infatti per alcuni il secolo della sua morte. Difficile tuttavia testimoniarne la morte se non se ne vuole poi confermare la successiva fragorosa resurrezione. Di certo contribuirono al suo silenzio la generale scristianizzazione della società occidentale; di certo lo favorirono l’incalzante secolarizzazione, il pensiero laico, l’empirismo ma anche le costruzioni filosofiche di alcuni pensatori a cavallo fra Sei e Settecento che, pur sostenendo il Cristianesimo, ne avevano comunque dimostrato l’inutilità ai fini della comprensione dei meccanismi che sovrintendono alla vita, al mondo naturale, alla realtà contingente. Il sovrannaturale veniva messo a tacere come brace sotto la cenere: della religione si tratteneva il messaggio positivo, quello etico, erano invece banditi gli aspetti magico-ritualistici, trascendenti, mistici, pericolosamente connessi con i concetti di peccato e redenzione, indissolubilmente legati agli inferni, ai paradisi e a tutti i loro abitanti. Neppure l’Illuminismo riuscì tuttavia ad allontanare il problema del male, pur provando a dissimularlo o evitando di porre la questione. Anche se il diavolo non costituiva un argomento sul quale disquisire, essendo stato accantonato assieme alla stregoneria, agli esorcismi e al soprannaturale in genere, il problema del male nel mondo rimaneva in tutta la sua impellenza, come sempre intollerabile, inaccettabile. Il demonio attese quindi in apparente silenzio; messo teoricamente a repentaglio dal relativismo scettico e dai passi spediti della scienza, già a partire dalla seconda metà del secolo XVIII si preparava alla riscossa, a un risveglio tanto improvviso quanto duraturo, come sempre adeguato ai tempi, perfettamente ambientato nella storia. Se il Secolo dei Lumi ne aveva rimosso l’essenza metafisica, rimaneva sempre e comunque la sua funzione di “metafora del male”; rimaneva la possibilità di reperire per questo personaggio scomodo, tuttavia difficilmente estinguibile, una notevole varietà di ruoli, che egli seppe interpretare in ambito letterario come simbolo della corruzione umana, di un cristianesimo superstizioso, deriso e messo alla berlina, ma anche come ipostasi del tutto positiva della rivolta contro ogni autorità inadeguata e iniqua, o anche come fascinoso interprete di quell’estetica dell’orrido e del sublime che tanto spazio avrà nell’arte e nella letteratura romantica.

Quali metamorfosi hanno caratterizzato l’iconografia più recente del male?
Il diavolo viene in realtà chiamato in causa di rado nelle opere dell’arte contemporanea che faticano a reperire per lui forme aggiornate e adeguate ai tempi e che semmai recuperano le sue maschere più grottesche quando vi sia la necessità di riconoscerlo vittorioso accanto agli uomini discriminati per il colore della propria pelle, emarginati e condannati per il proprio credo religioso, soggiogati in virtù di presunte superiorità raziali e oppressi in nome di una giustizia spacciata per divina da chi aggredisce ma vissuta come demoniaca da chi è invece destinato a subirla. Diavoli antichi dalle fattezze metamorfizzate, tra umano e ferino, simili nelle forme ai tanti esemplari scaturiti dall’immaginazione degli artisti medievali, possono allora raccontare le ultime sconfitte del genere umano, le nuove ingiustizie, le recenti distruzioni, gli ultimi orrori. Il demonio trova ancora oggi il modo di non dileguarsi totalmente dall’orizzonte figurativo e torna anzi ad essere quella maschera stereotipata, semplificata, ma immediatamente evocativa, con cui aveva iniziato il suo tragitto iconografico ancora ad Aquileia, nel IV secolo: pochi segni riconoscibili, associati agli attributi che già il Medioevo gli aveva fornito e a quel tanto di umanizzazione che può consentirgli di muoversi agevolmente tra gli uomini, incautamente rassicurati della sua presunta incapacità di nuocere. Il diavolo si è inoltre potuto adattare perfettamente alla dilagante virtualità, il vero regno della non essenza. È diventato una stella del cinema e si è insinuato con facilità nella intangibilità delle reti informatiche, come emoticon spiritosa di WhatsApp ma anche e soprattutto, come presenza invisibile e per tale motivo tanto più pericolosa. Mentre il web pullula di diavoletti e satanassi che sbucano nei video e si rintanano nei loghi dei siti commerciali per renderli più accattivanti e “sprintosi”; mentre la pubblicità ne abusa, sfruttando l’ormai scontato ma sempre valido binomio diavolo/sesso; mentre i fumetti lo accolgono nelle loro strisce colorate, spesso solo apparentemente innocenti, il nemico continua ad agire nell’ombra. Questo demonio fittizio non è certo meno spaventevole di quelli che affollavano gli inferni dipinti delle basiliche medievali: banale, pop, informatizzato, depotenziato dal punto di vista religioso ma ancora capace di esprimere il male interiore e quello che da sempre ci circonda, il diavolo non ha alcuna ragione di abbandonare il nostro immaginario e quell’atmosfera nebbiosa e indistinta dalla quale nessuno pare poterlo spodestare.

Laura Pasquini è storica dell’arte nell’Università di Bologna. Interessata agli esiti iconologici della produzione artistica, si occupa di arte medievale, di iconografia dantesca, delle immagini dell’Aldilà nel Medioevo, della rappresentazione figurata della città. Tra i suoi lavori: Iconografie dantesche, Ravenna 2008; Bologna delle torri. Uomini, pietre e artisti dal Medioevo a Giorgio Morandi, Firenze 2013; Diavoli e inferni nel Medioevo, Padova, 2015; «Pigliare occhi per aver la mente». Dante, la Commedia e le arti figurative, Roma 2020.

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