Fino al 1° dicembre, il palco del Teatro Vascello di Roma si fa spazio essenziale e immaginifico per “La scortecata”, spettacolo di Emma Dante liberamente tratto da Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile. Due attori straordinari, Salvatore D’Onofrio e Carmine Maringola, incarnano due vecchie sorelle ultranovantenni intrappolate in una catapecchia: una piccola stanza d’illusioni fatta di seggioline sgangherate, una scaletta da quattro soldi, un telo stellato e un castello giocattolo. In questa povertà assoluta, tanto materiale quanto esistenziale, si intreccia la trama della fiaba narrata e vissuta dalle protagoniste.
L’inganno della bellezza
Il re, sentendo la voce melodiosa della più giovane delle due vecchie (che ha 99 anni), se ne innamora. Le sorelle, animate dall’assurda speranza di conquistare il sovrano, mettono in scena un bizzarro rito: succhiare il dito mignolo per renderlo più attraente. Quando il re suona alla porta, le vecchie infilano le dita nella serratura, ma è proprio quello della più anziana a colpirlo. Invitata al palazzo, la più giovane riesce a trasformarsi momentaneamente in una donna bella e giovane, ma il miracolo svanisce, riportandola alla realtà della vecchiaia. In un atto disperato e grottesco, chiede alla sorella di scorticarla per liberare la pelle giovane da quella vecchia, un gesto estremo che la conduce alla morte. Lo spettacolo si chiude nel buio dell’atto finale, lasciando gli spettatori sospesi tra orrore e pietà.
L’illusione come necessità
Emma Dante trasforma questa fiaba barocca in una riflessione intima e profondamente umana. Il re, il castello, il miracolo: tutto è il frutto della fantasia delle due sorelle, una costruzione mentale nata dalla miseria e dalla paura della morte. Il minimalismo scenografico amplifica questa dimensione: un castello giocattolo, una scaletta instabile e due seggioline bastano a evocare mondi lontani, mentre le canzoni napoletane si intrecciano al racconto come un coro sommesso che accompagna il sogno e la sua inevitabile dissoluzione. La povertà e la vecchiaia si fanno motore della narrazione, un pretesto per immaginare un amore, un riscatto o semplicemente un diversivo dal dolore quotidiano.
La dimensione grottesca
Gli attori, uomini in vesti femminili trasandate e mutandoni, rendono i personaggi al tempo stesso tragici e ridicoli, tipici della tradizione teatrale popolare. L’assenza di soluzione di continuità nella recitazione e il ritmo serrato immergono gli spettatori in una spirale senza respiro, dove il confine tra realtà e finzione si dissolve. La comicità volgare si alterna al dramma, come nello stile di Basile, ma qui diventa un grido disperato, un’ancora di salvezza per non affogare nella consapevolezza dell’invecchiamento e dell’inevitabile fine.
Un finale senza riscatto
Il tema della bellezza e della vanità attraversa lo spettacolo con forza dirompente. La vecchiaia viene rappresentata non solo come una condizione fisica, ma come una prigione mentale. L’ossessione per la giovinezza e l’apparenza, che spinge una delle sorelle a chiedere di essere scorticata, diventa il simbolo di un sacrificio vano, in cui non esiste lieto fine. Non c’è un “e vissero felici e contenti”, ma solo un buio che cala improvviso, lasciando il pubblico a riflettere.
Un capolavoro di miseria e immaginazione
La scortecata è un piccolo capolavoro teatrale che gioca sul sottile equilibrio tra grottesco e tragedia. Emma Dante firma una regia essenziale e potente, affidandosi alla bravura innegabile di D’Onofrio e Maringola. Il dialetto napoletano e la tradizione popolare emergono in tutta la loro ricchezza, ma non sono mai puro folklore: diventano il mezzo per raccontare l’universalità di un tema che tocca corde profonde. La vecchiaia, la paura della morte, l’illusione come antidoto al dolore: La scortecata è uno specchio amaro e brillante della condizione umana.
Roberto Cavallini