“Lei non capisce un c….”. Provate a dirlo al capo e vi ritroverete nella migliore delle ipotesi accusati di ingiuria. In casi peggiori, potreste addirittura essere condannati, come capitato ad un 66enne di Frosinone, che si è visto annullare dalla Cassazione, l’assoluzione concessagli in precedenza dal giudice di pace. “Secondo il magistrato, il fatto contestato non costituiva reato: l’espressione usata dal lavoratore, rilevava il giudice di pace, è ormai “entrata nel gergo comune, ed è stata pronunciata nel corso di una discussione con lo scopo di “comunicare in modo efficace il proprio dissenso” nei confronti del datore di lavoro. A presentare ricorso in Cassazione era stato il procuratore capo di Frosinone, sottolineando che la frase ‘incriminata’, “proprio in quanto collocata nell’ambito di quella discussione”, assumeva “significato ingiurioso” quale “volgare affermazione di incompetenza” del datore di lavoro. La quinta sezione penale della Suprema Corte, con la sentenza n.234 depositata oggi, ha accolto il ricorso, ricordando che “al di la’ della questione sull’attuale appartenenza o meno al parlare comune del termine volgare riportato nell’espressione contestata, e’ invero l’espressione stessa, letta complessivamente e nel contesto in cui veniva pronunciata, ad assumere carattere ingiurioso laddove vi veniva rimarcata con particolare asprezza di tono, e nel corso di una discussione di lavoro, l’incompetenza della persona offesa nella materia oggetto di discussione”. La condotta del lavoratore, secondo gli ‘ermellini’, “esorbitava pertanto dalla mera manifestazione di un contrasto di opinioni fra l’imputato e la parte offesa, presentandosi viceversa quale offesa all’onore professionale di quest’ultima in quanto tale”. Sulla base di queste osservazioni, il giudice di pace dovra’ riesaminare il caso.
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