La celebrazione, ieri in Campidoglio, del 60esimo anniversario del Trattato di Roma sulla Cee non è stata, come si poteva temere, un esercizio pomposo di retorica autocelebrativa e autoreferenziale, ma un momento davvero storico in cui l’Unione europea, senza ormai più la Gran Bretagna, ha finalmente preso atto dei propri errori e della necessità di riconquistare la fiducia dei propri cittadini. E i Ventisette hanno riaffermato solennemente la propria volontà di proseguire insieme, uniti, la strada verso il proprio futuro comune europeo.
Dopo una lunga trattativa, i leader dell’Unione europea riuniti in Campidoglio a Roma per celebrare il sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma hanno firmato tutti la Dichiarazione di Roma. E’ stato necessario chiedere l’autorizzazione a Bruxelles per trasportare la teca che contiene il documento firmato nel 1957 da Francia, Germania Ovest, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo. Dal ministero degli Esteri è approdata al Campidoglio, per ricordare quei trattati che istituirono e disciplinarono, rispettivamente la Comunità economica europea e la Comunità europea dell’energia atomica. La nuova dichiarazione di Roma ricalca quell’evento, fermo restando che la cerimonia si è tenuta tra rigidi controlli e gli occhi attenti delle forze dell’ordine, mentre allora, quando non c’era il pericolo del terrorismo, la piazza era gremita di cittadini. Momenti di tensione al corteo Eurostop, con 120 bloccati.
Il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, nel suo discorso, ha riconosciuto che l’Europa comunitaria, dopo i successi dei primi decenni, ha sbagliato, è arrivata in ritardo e ha perso in gran parte la fiducia dei suoi cittadini quando il mondo è cambiato, quando sono arrivate la globalizzazione, la crisi economica e finanziaria, la crisi migratoria.
Dall’ammissione onesta degli errori si può veramente ripartire, e c’è davvero la volontà di farlo. Questo è il messaggio di Gentiloni e, sebbene espresso in modo più paludato, della Dichiarazione di Roma sottoscritta dai Ventisette.
Gentiloni non ha perso l’occasione per puntare il dito contro quello che è stato forse il più grave errore degli ultimi anni: la gestione, economicamente fallimentare, della crisi dell’Eurozona sotto la leadership tedesca e le decisioni della Commissione europea, le mancate risposte sulla crescita e sul lavoro: ‘Serve il coraggio di voltare pagina, abbandonando una visione della nostra economia che talvolta sembra affidata a piccole logiche di contabilità a volte arbitraria’.
Prima che la guerra finisse, ha affermato il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni in Campidoglio, le Nazioni d’Europa avviarono un cammino di ricostruzione e di pace. Ma le strade sarebbero rimaste separate per molto tempo. In quell’Europa divisa gli statisti iniziarono a costruire un’unione di pace e di progresso accomunati da una splendida ossessione: non dividere ma unire, cooperare per il bene di ciascuno. Si ritrovarono a compere la scelta più antica, quella fra il bene e il male, e dopo due guerre mondiali, gli europei scelsero il bene.
Oggi, ha continuato Gentiloni, celebriamo la tenacia e l’intelligenza dei nostri padri fondatori, e il successo di quella scelta la offre il colpo d’occhio di questa sala, eravamo 6 e siamo 27. La storia è tutt’altro che finita. Abbiamo imparato la lezione: l’Unione sceglie di ripartire e ha un orizzonte per farlo nei prossimi 10 anni. Abbiamo la forza per ripartire, è la storia che ce lo dice. La nostra forza è che abbiamo saputo convivere con le diversità. Abbiamo la forza delle nostre leggi, della società aperta, del valore che attribuiamo a i dititti umani. Ma dobbiamo ridare fiducia ai nostri concittadini, attraverso la crescita, gli investimenti, le politiche migratore comuni, gli impegni per la sicurezza e la difesa.
Lunga vita alla nostra Unione europea, sono state le parole con cui il premier ha concluso il suo discorso.
Mio padre e tre dei suoi fratelli sono stati reclutati dai nazisti contro la loro volontà, ha ricordato il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker. Chi ci crediamo di essere quando ci rifiutiamo di ricordare quanto hanno fatto quelle generazioni a favore della pace? Dovremmo essere orgogliosi di ciò che siamo riusciti a raggiungere in Europa, dotando il Continente di una pace durevole, una moneta unica, nessuno e neanche noi stessi pensavamo di essere in grado di farlo, abbiamo stabilito il mercato unico più grande del mondo. Abbiamo riunito la storia e la geografia europea. Abbiamo fatto tutto questo con la pazienza, la volontà e la determinazione di cui hanno bisogno i percorsi lunghi e le grandi ambizioni. Ora vado a firmare la Dichiarazione di Roma con la penna di una volta, utilizzata nel 1957. Vi sono delle firme che durano a lungo.
In Campidoglio, ha detto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ricevendo i leader europei, avete adottato una Dichiarazione impegnativa che disegna il percorso da seguire per ridare slancio alla nostra Unione. Una Dichiarazione che ribadisce, senza infingimenti, come il nostro futuro si identifichi con il nostro essere, insieme, Europa e si muova nella direzione indicata dagli scenari più ambiziosi tracciati nel recente Libro Bianco della Commissione e nel segno dei valori più autentici alla base del percorso di integrazione.
Le prove che l’Unione Europea è già oggi chiamata ad affrontare pongono con forza l’esigenza di rilanciare l’obiettivo, ineludibile, di riforma dei Trattati, ha continuato il Capo dello Stato. La discussione per metter mano a una revisione dei Trattati non sarà semplice, ma quel che emerge dalla Dichiarazione di oggi è che inizia una ‘fase costituente’, che mi auguro feconda, arricchita dalla diversità di opzioni e, comunque, da unità di intenti che gli Stati membri sapranno certamente portare al cantiere comune.
I leader dei Ventisette hanno firmato una dichiarazione congiunta frutto però di divisione e diktat di Paesi, Polonia e Grecia, in primis, che hanno preteso modifiche al testo prima di garantire il proprio placet. Su richiesta di Atene appare un virgolettato che sottolinea come l’Ue non sia solo ‘una grande potenza economica’ ma una con un ‘livello senza pari di protezione sociale e welfare’.
Il primo ministro greco Alexis Tsipras, aveva mantenuto fino alla vigilia una riserva, anche se aveva già ottenuto un rafforzamento del paragrafo sull’Europa sociale, ma soprattutto ha avuto, venerdì, rassicurazioni pubbliche da parte del presidente della Commissione Jean-Claude Juncker sulla tutela dei diritti del lavoro e della contrattazione collettiva in Grecia, minacciati dalle pressioni dei creditori di Atene e in particolare del Fmi.
Sull’Ue a più velocità, il nodo più controverso delle ultime settimane, su cui in particolare la Polonia si oppone temendo che Francia e Germania, forti del loro peso, pieghino al loro volere gli altri Paesi, nel testo dopo la dichiarazione ‘l’unità è sia una necessità che una nostra libera scelta e agiremo insieme, con diverse velocità e intensità dove necessario’ si aggiunge ‘continuando a muoverci nella stessa direzione, come abbiamo fatto in passato’. Sul dossier più scottante, i migranti è stata tolta la parola ‘umana’ quando si parla ‘della politica migratoria efficiente, responsabile e sostenibile’.
La Dichiarazione di Roma, alla fine, come dicevamo, l’hanno firmata tutti.
Anche la premier polacca Beata Szydlo: nella sua giacca giallo canarino che si accordava con la luminosa primavera di Roma, prima ha fatto finta di esitare, poi ha sorriso e allargato le braccia dopo aver firmato. Fino a pochi giorni fa aveva fatto credere di essere pronta a guastare la festa col suo dissenso, come aveva già fatto a Bruxelles, il 9 marzo, cercando invano di bloccare la rielezione del connazionale Donald Tusk alla presidenza del Consiglio europeo.
Ma lo ‘sherpa’ di Szydlo, in realtà, già il 20 marzo aveva dato il suo via libera al testo pressoché definitivo della dichiarazione, dopo che tutto il paragrafo sull’Europa a più velocità era stato attentamente riformulato, diventando un semplice richiamo alle ‘cooperazioni rafforzate’ già previste dal Trattato Ue, e non una strategia per creare un’Europa di seria A e una di serie B, come temevano non solo la Polonia ma diversi altri paesi dell’Est.
Il governo polacco, va ricordato, è ai ferri corti con la Commissione europea che lo accusa di non rispettare pienamente lo Stato di diritto e la separazione dei poteri.
Cocis