Accesso all’aborto difficile in Italia per le donne che ne hanno bisogno e medici non obiettori discriminati. Il Consiglio d’Europa ha accolto un ricorso presentato dalla Cgil contro l’applicazione ‘a singhiozzo’ della legge 194/78. In particolare la Confederazione generale italiana del lavoro sosteneva nel ricorso, ritenuto ammissibile dal Consiglio, che le norme sull’obiezione di coscienza previste nella normativa italiana sull’interruzione volontaria di gravidanza non vengono applicate adeguatamente e questo viola la Carta sociale europea. La decisione del Comitato europeo dei diritti sociali del Consiglio d’Europa, adottata a ottobre dopo l’udienza pubblica del 7 settembre 2015 ma pubblicata oggi, ha dunque accolto il ricorso della Cgil in cui il sindacato lamentava che la situazione attuale in Italia non protegge il diritto garantito delle donne all’accesso all’aborto, e nemmeno i diritti dei medici coinvolti nei servizi per l’interruzione volontaria di gravidanza, che sono spesso discriminati sul lavoro. Nel ricorso la Cgil ha presentato anche i dati relativi al progressivo aumento del numero degli obiettori di coscienza in Italia. Se nel 2003 i ginecologi che non effettuavano aborti erano il 57,8%, nel 2009 sono saliti al 70,7%. Ma nel Sud Italia queste percentuali possono arrivare anche superare l’85%, come in Basilicata. Nella sua decisione il Comitato, visto che in alcune Regioni il numero di strutture che assicurano l’aborto è inferiore al 30%, spiega che questo non giustifica la conclusione contenuta nell’ultima relazione al Parlamento sulla legge 194, in cui si afferma che la copertura è più che soddisfacente. Mancano infatti i dati sul numero di donne a cui i sono stati negati i servizi a causa della mancanza di personale non obiettore. Anche per questo, le carenze attuali descritte rimangono presenti e le donne che hanno bisogno dell’accesso ai servizi per l’aborto continuano a dover affrontare notevoli difficoltà nell’ottenerlo nella pratica, nonostante le disposizioni della normativa in materia. Il Comitato nota infine che questo può spingere le donne a rivolgersi ad altre strutture in Italia o all’estero, senza il supporto delle istituzioni pubbliche competenti. E, conclude, queste ultime continuano a non adottare (o ad adottare in maniera non sufficiente) le misure necessarie per compensare le carenze causate dal personale sanitario che decide di invocare il diritto all’obiezione di coscienza.
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