Africa, per la prima vota, illuminata dai riflettori della Biennale di Venezia

L’Africa, per la prima volta, è stata finalmente illuminata dai riflettori della Biennale di quest’anno. Quale Africa? L’Africa della diaspora, dei movimenti aggrovigliati impossibili da mappare, delle culture nomadi, delle storie di vita, di quell’umanità frammentata alla quale apparteniamo tutti.   

The Laboratory of the Future è una mostra articolata in sei parti. La metà dei partecipanti, 89 in tutto, proviene dal continente africano o dalla diaspora. È stata fatta molta attenzione all’equilibrio di genere, che è paritario, e quasi la metà delle opere è stata realizzata da studi formati da team molto ristretti o a conduzione individuale. I partecipanti si chiamano “practitioner”, non “architetti”, “urbanisti”, “designer”, “ingegneri” o “accademici”, perché sono persone che vivono e lavorano in un mondo sempre più ibrido, complesso, e sincretico che hanno sentito il bisogno di un termine più ampio e più fluido in grado di rappresentarli.

La mostra inizia nel Padiglione Centrale ai Giardini, dove sono riuniti 16 studi che formano un distillato della produzione architettonica africana e prosegue nel complesso dell’Arsenale, con la sezione Dangerous Liaisons e i Progetti Speciali della Curatrice. Le opere e le installazioni si concentrano su due temi cardine: la decolonizzazione e la decarbonizzazione, mostrando ai visitatori nuove pratiche e modalità future di vedere e di stare al mondo senza alcuna intenzione didattica, senza mostrare soluzioni o impartire lezioni. L’obiettivo del Laboratory of the Future è quello di essere un veicolo di cambiamento, di creare uno scambio e una reciprocità con i partecipanti e di rafforzare le loro riflessioni e azioni orientate a un futuro comune.

“Al cuore di ogni progetto c’è lo strumento principe e decisivo: l’immaginazione” ci spiega la scrittrice, architetta e curatrice Lesley Lokko. Non si costruisce un mondo migliore se prima non lo si immagina. Così come non si progettano luoghi, spazi, oggetti e abitazioni senza progettare, dal latino proiectare «gettare avanti», anticipare il futuro, immaginare ciò che ancora non c’è.

Gli architetti, i designers, i visitatori, tutti noi attraverso questi progetti, siamo incitati a far parte del processo collettivo di comprendere come vivere. I pratictioners del Laboratory of the Future ci raccontano, attraverso immagini, testi, video, installazioni e manufatti, che ogni stile di vita, ogni stile abitativo è una sperimentazione comune dell’esistenza, che bisogna tener conto della saggezza e dell’esperienza di tutti, che bisogna ascoltare con nuove orecchie un continente, quello africano, che da tempo immemore fonda la sua storia proprio sulla saggezza e sull’esperienza.

Le opere della mostra rappresentano un infinito assortimento di piste nel paesaggio dell’esperienza umana. Opere che ci dicono, a chiare lettere, quanto sia importante, oggi più che mai, prendere le distanze dai nostri stili di vita, tratti culturali e comportamenti abituali per unirsi alle vite degli altri mossi dall’obiettivo comune di trovare nuovi modi di vivere. Per trovare modi per andare avanti abbiamo bisogno di tutta la creatività di cui possiamo disporre. Il mondo è interconnesso, è un etnorama, ci ha spiegato l’antropologo Arjun Appadurai, è un flusso perenne e ininterrotto di immigrati, lavoratori, rifugiati, studenti, residenti o più semplicemente persone in continuo movimento. È un mondo formato da un numero infinito di voci sovrapposte, come i Vassels, vasi sonori stampati in 3D, la cui trama e morfologia è generata dalle frequenze delle voci di alcuni cittadini afroamericani di Chicago. Vasi magici, disposti in cerchio, che parlano di gioia, emancipazione e realizzazione afroamericana.

Foto:  Marco Marassi

     

Barbara Lalle

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