Martedì 9 gennaio il vermiglio e caro Argentina di Roma è pieno, pieno di un giovane pubblico di studenti che lascia ben sperare per le sorti del nostro Teatro: va in scena la prima del Don Giovanni di Moliére per la regia di Valerio Binasco.
Fa coppia il Teatro Nazionale ed il Teatro stabile di Torino del quale è direttore artistico lo stesso Binasco, per la produzione di quest’opera.
L’impianto scenico rispetta la classica suddivisione in cinque atti. Tendenzialmente fedele al testo, ci irradia lo sguardo con una scenografia imponente dalla struttura lignea che rimane seppur in movimento, per tutti gli atti.
I cambi di scena, velati da un sipario leggero subito dietro il proscenio, sono affidati agli attori che, pur non uscendo dalle loro parti, orchestrano elegantemente la scelta registica.
L’illuminazione di Pasquale Mari drammatizza sapientemente sopratutto alcuni passaggi. Si assapora il divino attraverso un lampadario di cristalli alla comparsa del Convitato di Pietra.
Il classico e impunito donnaiolo della letteratura classica si tinge di toni bestiali non solo nella sua rapacità. L’interpretazione di Gianluca Gobbi merita un grande plauso. Essa sottolinea con la cavernosità postulare e della voce, l’intento di rimandare ad un’idea di animale senza regole e senza Dio. Strafottente in tutto e per tutto, il nostro Don Giovanni è sprezzante del pericolo, sfida la sorte e si fa gioco del vile servitore ad ogni piè sospinto. Vacilla per la prima volta solo nel IV atto, non appena il padre, Fabrizio Contri, esce di scena dopo averlo rimproverato come un bambino. Allora calci e pugni sul tavolo e da buon viziato rinnega il padre e invoca la sua morte per sentirsi finalmente libero dall’unico giudizio che teme.
La relazione con Sganarello è insolita, ma aderente. Al secondo è concesso nel dialogo di esprimere opinioni e ragionare col padrone finché non viene minacciato di essere frustato. Sganarello già dal primo atto prende le distanze dall’irretitudine, ma è un vile affamato. Ammicca allo Zanni e alla macchietta, Sergio Romano. Interpreta la spalla perfetta di un duo comico funzionale alla commedia: la partitura fisica è impeccabile e sia per ruolo che per bravura l’attore porta tutto il pubblico a sè.
Quello che salta alla mia mente è la volontà del regista di mettere in scena disagi senza tempo, solitudine, violenza, prepotenza e totale servilismo, attraverso “un’amicizia” di comodo. Del resto Don Giovanni non ha che Sganarello e viceversa. Nei lunghi dialoghi tra i due, si lascia dire anche ciò che non vorrebbe sentire, difendendosi spesso con rabbia e botte.
Disagio manifesto in entrambi anche in dei minimi movimenti del corpo che tornano come tic, a sottolineare la Diversità fino alla disabilità mentale.
Speciale il duo di Pietra che classico e imponente afferma l’errore della vita dissoluta del tombeur de Femme e lo sfida a dissuadere. Ci riesce e di nuovo il Don Giovanni vacilla, si mette in discussione e interroga il suo antagonista, Dio, prestando ascolto ad una coscienza. L’irreprensibile libertario inizia a pregare e chiede venia al padre, ma è tutto un inganno… e Sganarello incredulo ci delizia nella sua arringa coraggiosamente impertinente.
Il V atto prepara ad un finale di morte. Don Alonso e Don Carlos, fratelli di Elvira, la prima disonorata, chiedono giustizia ed esprimono carità sottoponendo il nostro “eroe” alla scelta: o il matrimonio o il duello, ma prima, permettono agli improbabili sposi un tête-à-tête dove Elvira riuscirà ad essere vogliosamente persuasiva… In ogni caso, la femmina disonorata sceglierà per il suo primo marito e tornerà in convento. Lasciato solo dalla donna, il maschio confida al suo amico la sua commozione e muore, prima di essere giustiziato dalla famiglia offesa. L’esalazione dell’ultimo rantolo di Don Giovanni, in braccio alla statua del commendatore, è coperta dalla disperazione di Sganarello rimasto a bocca asciutta mentre si chiude il sipario.
Mi è piaciuto! Ho apprezzato il dialettale del secondo atto e la figura lenta e poetica interpretata da Zerbinati che attraversa tutti gli atti.
Uno spettacolo bello e giusto, attuale nel suo essere pungente. Un pochino lungo per le attenzioni ormai impigrite dalla velocità dei nuovi media. Quindi, sì, è lungo il giusto. Bisogna allenare e riallenare le capacità attentive del pubblico, soprattutto quelle degli studenti e dei giovani.
Barbara Lalle