Va in scena a Napoli ‘Il rito’ di Ingmar Bergman nella “versione per il teatro” che il regista Alfonso Postiglione, autore anche dell’adattamento del testo tradotto da Gianluca lumiento, realizza dell’omonimo film del grande cineasta svedese.
Interpretato da Elia Schilton nel ruolo del Giudice Ernst Abrahmsson, Alice Arcuri (in quello di Thea Winkelmann), Giampiero Judica (nei panni di Sebastian Fischer) e Antonio Zavatteri (in quelli di Hans Winkelmann), dopo la “prima” al Campania Teatro Festival 2023, lo spettacolo debutta martedì 27 febbraio al Teatro San Ferdinando, dove resterà fino a domenica 3 marzo.
Le scene sono di Roberto Crea, i costumi di Giuseppe Avallone, le musiche di Paolo Coletta, il disegno luci di Luigi Della Monica, la partitura fisica è di Sara Lupoli. Aiuto regia Serena Marziale.
La produzione è del Teatro di Napoli–Teatro Nazionale, Ente Teatro Cronaca, Campania Teatro Festival–Fondazione Campania dei Festival.
La sceneggiatura di Bergman realizza, in nove quadri, la descrizione dell’ossessivo accanimento di un giudice contro tre attori di teatro che vengono denunciati e sottoposti al suo giudizio per rispondere delle accuse di oscenità rivolte al loro ultimo spettacolo. Il caso che si apre è affidato al giudice censore Abrahamsson a cui spetta l’analisi dei fatti e l’eventuale condanna da comminare agli indagati qualora ritenuti essi colpevoli.
Dai colloqui iniziali con gli artisti, chiamati all’onere della prova, l’inquirente non riesce a farsi un’idea chiara, così chiede ed ottiene dagli attori di allestire la performance nel suo stesso ufficio e assistere in tal modo direttamente alle azioni sceniche incriminate.
E’ a questo punto che si sveleranno le oscure articolazioni dei rapporti intercorrenti tra i tre accusati ma, allo stesso tempo, la potenza delle loro parole ed azioni infrangeranno il simulacro di integrità dello stesso magistrato rivelando le sue fragilità e un’insospettabile oscurità d’animo.
“La performance dei tre artisti – sottolinea il regista Alfonso Postiglione – si rivela una sorta di rito dionisiaco dalle chiare valenze simboliche in cui la forza della creazione artistica vince sui tentativi di censura e normalizzazione di una qualsivoglia autorità, politica o sociale”.
Incentrata sul rapporto, spesso conflittuale, tra autorità costituita e azione artistica, questa vicenda “sembra parlarci del nostro presente – aggiunge Postiglione – nonostante il testo, tratto dalla sceneggiatura originale (che, per inciso, inizialmente Bergman scrive proprio per il teatro), sia fedele al film diretto per la televisione svedese nel 1969”.
“Oltre al tema della censura – conclude il regista – subìta spesso da Bergman ai suoi tempi, nel testo è forse ancora più centrale l’affermazione delle potenziali possibilità destabilizzanti che possono scaturire da un atto artistico e della sostanziale impossibilità di contenerne gli esiti. Il rito, infatti, oltre ad essere un tracciato umano raccontato dall’autore attraverso l’immagine filmica, è soprattutto una partitura di parole e di rapporti fisici tra i personaggi. Caratteristica, quest’ultima, che consente a noi oggi di avere piena possibilità di eseguirla ed animarla nella cornice di uno spazio scenico teatrale”.
Teatro San Ferdinandlo | Napoli. Piazza Eduardo De Filippo 20
dal 27 febbraio al 3 marzo 2024
IL RITO
di Ingmar Bergman
traduzione di Gianluca Iumiento
adattamento e regia Alfonso Postiglione
con Elia Schilton (Giudice Ernst Abrahmsson)
Alice Arcuri (Thea Winkelmann), Giampiero Judica (Sebastian Fischer)
Antonio Zavatteri (Hans Winkelmann)
scene Roberto Crea
costumi Giuseppe Avallone
musiche Paolo Coletta
disegno luci Luigi Della Monica
partitura fisica Sara Lupoli
aiuto regia Serena Marziale
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Ente Teatro Cronaca, Campania Teatro Festival – Fondazione Campania dei Festival
durata spettacolo 1h e 40’
Info, calendario con orari rappresentazioni su www. teatrodinapoli.it
Biglietteria: tel. 081.5513396 / 081.292030 e-mail: biglietteria@ teatrodinapoli.it
orari: lunedì > venerdì dalle 10:30 alle 13:30 e dalle 14:00 alle 18:00
sabato dalle 10:30 alle 13:00.
IL RITO
note di regia
Il rito è tratto dall’omonimo film (in originale, Riten) scritto e diretto da Ingmar Bergman nel 1969, il primo da lui realizzato direttamente per la televisione, l’ultimo girato interamente in bianco e nero. Bergman cominciò a scrivere pensandolo come allestimento teatrale per il Dramaten di Stoccolma, incoraggiato dal favore di Erland Josephson, suo sodale e consigliere. Ma il regista-autore ci ripensò e lo dirottò verso una “partitura filmata per primi piani”. Il film è una sorta di cinema da camera, girato in interni con soli quattro personaggi, ed è incentrato sul rapporto, spesso conflittuale, tra autorità costituita e azione artistica.
Lo spettacolo Il rito, nello specifico, è tratto dal testo originale integrale, da cui Bergman sviluppò in seguito la sceneggiatura. Difatti, il testo risulta più esteso e approfondito, nella parte dialogica, rispetto alla versione filmata, costituendosi come una sorta di inedito.
Tre attori di teatro di varietà (i coniugi Hans e Thea, e Sebastian, amante della donna) sono stati denunciati per l’oscenità presunta di un numero del loro ultimo spettacolo. Un giudice incaricato, il Dott. Abrahmsson, li interroga per decretarne l’eventuale condanna. Dai colloqui con gli artisti – in cui si scoprono soprattutto le ambigue articolazioni dei rapporti tra i tre attori, oltre la discutibile natura dello stesso giudice – l’uomo non riesce a farsi una idea chiara della faccenda e finisce per assistere alla performance allestita nel suo stesso ufficio, al termine della quale subirà conseguenze fatali.
La performance dei tre artisti si rivela una sorta di rito dionisiaco dalle chiare valenze simboliche, in cui la forza della creazione artistica vince sui tentativi di censura e normalizzazione di una qualsivoglia autorità, politica o sociale. E per ciò, il rito si configura come una sorta di parodia delle Baccanti di Euripide, nel senso etimologico di una loro ricantazione entro parametri estetici e sociali contemporanei. Il giudice può corrispondere facilmente alla figura di Penteo, in aperta ostilità nei confronti dei tre artisti, dietro i quali si celano identità e funzioni da sacerdoti dionisiaci. Ma forse, nel finale, si paventa la presenza stessa del Dio, sotto le spoglie dell’eterno femminino, fascinoso e perturbante, di Thea.
Oltre la censura – subita spesso da Bergman ai suoi tempi, ed oggi strisciante in maniera sempre meno latente tra le pieghe più varie del nostro vivere sociale – nel testo è forse ancora più centrale il tema della impossibilità di contenere la potenzialità destabilizzante dell’atto artistico, votato a stanare le verità dell’essere umano, a rischio anche della morte.
Il testo si sviluppa in nove scene – la prima e l’ultima con i quattro attori, le altre da coppie degli stessi – ambientate esclusivamente in interni – una camera d’albergo, un ufficio, un bar, il camerino di un teatro – spazi volutamente claustrofobici. I rapporti tra i personaggi sono tesi e affilati e posseggono una forza interlocutoria che tiene desta l’attenzione fino all’inaspettato finale.
La scena dello spettacolo, si presenta come una grande scatola interamente bianca, indefinita e assoluta, al centro della quale campeggia una piattaforma sospesa, su cui è allestito, completamente in nero, l’ufficio del giudice Abrahmsson.
L’uomo è rintanato lì sopra, rifugiato dal mondo, protetto dal suo abito istituzionale.
Non osa, forse non può, o non sa, allontanarsi dal suo ambito. I tre artisti agiscono sul bianco ineffabile nelle loro intime relazioni, quando non interrogati dall’autorità del magistrato, che li accoglie, alternandoli, sulla piattaforma-ufficio. In realtà, nonostante la cooptazione ufficiale, il loro è una sorta di assedio volontario, di assalto all’istituzione, di contagio artaudiano con i germi della loro libertà artistica e del loro consapevole azzardo esistenziale.
Il rito, teatralmente, è soprattutto una partitura di parole e rapporti fisici tra i personaggi. La natura muscolare e nervale delle fisionomie al centro della vicenda ne fanno materia per un moderno kammerspiele. L’aggressività è evidente, nei confronti tra le parti, e risalta la scontrosità delle identità in gioco.
Il giudice si mostra dapprima rispettoso, cerimonioso, quasi adulatorio nei confronti dei tre artisti chiamati a dar conto del loro spettacolo. I tre sono divi, famosi, privilegiati elementi umani da preservare sul loro piedestallo, e lui è un semplice servitore della comunità.
Ma già dopo la prima scena, il gioco si fa progressivamente più prepotente da parte del censore. L’azione scardinante dei vari interrogatori comincia a mostrare i meccanismi che regolano i rapporti, moralisticamente discutibili, del terzetto di artisti.
Le dichiarazioni diventano vere e proprie confessioni, sempre più intime. Ci sembra quasi di sentire i miasmi e avvertire i rumori interiori di queste individualità tenute insieme da relazioni malate, sul filo dell’eccezione. L’atto confidente diventa liberatorio. Tanto che vien quasi il sospetto che ci provino gusto a farsi umiliare. E allora sotto un’inchiesta dai vaghi toni kafkiani, con l’accusa di oscenità ci finisce la vita stessa, nel nostro caso quella di tre individui, troppo liberi e creativi rispetto alla morale comune. E si dispiegano dunque la fragilità e ipersensibilità nevrotica della bellissima Thea, la vanità violenta dell’irresponsabile Sebastian, la razionalità noiosa di un più calcolatore Hans.
Ma a poco a poco i piani iniziano a ribaltarsi. Nell’istruttoria, sempre più ambigua e crudele, il giudice svela le sue frustrazioni e sgradevolezze, abbrutito da una disperata solitudine e ricattato dalle debordanti umanità dei tre artisti.
E allora tutti fanno a gara a mettere in scena la propria più marcia e intima verità. Nell’ultima scena, dove c’è il rito per antonomasia, quello dionisiaco della Elevazione, c’è il lasciarsi andare definitivo, il consegnare il peso di una intera esistenza.
Il rito di cui forse ci parla davvero Bergman è dunque quello dello svelarsi, raccontarsi, esibirsi continuamente e sfacciatamente e così facendo consegnare le proprie colpe a qualcuno, fosse anche la colpa ultima di vivere, rischiando anche di perderla, la vita.
Il giudice qui diventa spettatore privilegiato di un teatrino personale e segreto, che esibisce progressivamente le nature autentiche e dunque inesorabili delle persone (dei personaggi). Ma egli stesso ne approfitta, in uno scambio delle parti, per manifestarsi soprattutto a se stesso, verso un atto catartico che afferma la necessità, fin dalle notti dionisiache, dell’atto ineludibile della (auto)rappresentazione.
Allo stesso tempo, denunciare come osceno un rito (seppur di origine ellenica, per cui pagana) accusando l’arte e gli artisti di essere portatori (in)sani dell’atto misterico, ci spinge a sospettare, ancora oggi, dopo anni dalle riflessioni bergmaniane, che l’unica sacralità possibile – intesa come summa di valori universali a cui è sempre più difficile appellarsi – sia contenuta, prima ancora che nell’atto, nello sforzo artistico. E ciò, in un mondo che si impegna a celebrare quotidianamente, pure compiacendosi, la lunga agonia dell’estinzione di Dio. E dell’uomo.
Alfonso Postiglione