Secondo uno studio condotto all’Università di Bologna, è emerso che l’amianto è anche uno delle cause del colangiocarcinoma, uno dei tumori raro al fegato. Un team guidato da Giovanni Brandi, docente di Oncologia medica al Dipartimento di Medicina Specialistica, Diagnostica e Sperimentale, in collaborazione con la Medicina del Lavoro dell’Università di Bologna, ha studiato 155 casi di tale neoplasia presso il Policlinico Sant’Orsola-Malpighi nel periodo 2006-2010. Con lo studio, è emerso che le persone che avevano svolto lavoro come: lavoratori portuali, manovali edili, carpentieri, addetti alle fornaci, hanno un maggior rischio di ammalarsi di questa neoplasia. Nonostante il colangiocarcinoma sia una forma tumorale relativamente rara (circa 3,5 casi ogni 100.000 abitanti per anno in Italia), si contraddistingue però per un elevato indice di mortalità. Negli ultimi trent’anni, le statistiche – spiegano gli studiosi – hanno confermato un preoccupante aumento dei casi di questo tumore in Occidente, soprattutto a carico di maschi anziani. I ricercatori bolognesi hanno perciò rivolto la loro attenzione altrove e si sono concentrati sull’analisi degli ambienti di lavoro. Le fibre di amianto, spiegano i ricercatori bolognesi, sono uno dei più potenti agenti cancerogeni noti in medicina. L’esposizione all’amianto oltre provocare il mesotelioma, che ne rappresenta il tumore tipico, induce un accertato aumento di rischio per i tumori del polmone, della laringe e dell’ovaio, mentre ci sono meno riscontri per i tumori dell’apparato gastrointestinale.
Già negli anni 80 si parlò di un possibile legame tra amianto e rischio di colangiocarcinoma nonostante, la medicina ha ignorato l’analisi del rischio causato da questa esposizione. Il team dell’Università di Bologna ha attualmente in corso altri studi finalizzati ad approfondire le conoscenze sul tema e per individuare altre patologie, fino a questo momento non associate al pericoloso minerale. “Nonostante l’amianto sia stato bandito da vent’anni – osserva il professor Brandi – le patologie ad esso collegate, purtroppo, rischiano di essere più un problema del futuro che non del passato, perchè la malattia si sviluppa in un arco dai 20 ai 40 anni dalla prima esposizione e quindi il picco epidemico potrebbe non essere ancora stato raggiunto”.
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