Anagrammi: Incontro ed intervista con Cristina Eidel e Kostas Papioannoau

Anagrammi: Incontro ed intervista con Cristina Eidel e Kostas Papioannoau

Ha inaugurato sabato 23 Marzo ANAGRAMMI, bipersonale di Cristina Eidel e Kostas Papioannoau. La mostra, inserita nel calendario del Mese della Fotografia, nasce dalla pluriennale amicizia e collaborazione artistica dei fotografi. La cura affidata ad Oriana Picciolini consta di due progetti: “Petites Pieces” di Cristina Eidel e “Prospettive Perifieriche” di Kostas Papioannoau presso Hotel Re Testa, sito nello storico rione di Testaccio a Roma. Presente al vernissage e per tutta la durata della mostra, uno stand del Caffè Galeotto, realizzato nella torrefazione attiva all’interno dell’Istituto Penitenziario Rebibbia di Roma, con i suoi prodotti solidali realizzati artigianalmente da persone detenute, che hanno avuto la possibilità di essere formati per occuparsi in un progetto di re-inserimento sociale.

Incontro gli artisti che con i loro lavori invitano, ognuno con il proprio linguaggio espressivo, a riflettere sulla permutazione che la fotografia suggerisce attraverso la propria raffigurazione del tempo e dello spazio. Rubo loro una breve intervista:

Domanda: Attualmente i vostri lavori sono esposti a Roma in calendario per il Mese della Fotografia . Potete parlarcene?

K.P. Espongo una parte di un lavoro più ampio e duraturo nel tempo, dedicato alle periferie urbane, agli spazi e ai luoghi emarginati e superati dal progresso umano. Frammenti di archeologia industriale. Si tratta di una serie di fotografie realizzate in vari periodi con il processo analogico, dalla fase della ripresa fino allo sviluppo e alla stampa finale sempre e rigorosamente manuale, fatta nella mia Camera Oscura.

C.E. Le fotografie esposte sono parte di una ricerca più ampia portata avanti nel tempo. Da questo lavoro sono nate sia immagini singole, sia piccole serie, con una propria evoluzione narrativa , delle quali ho esposti rispettivamente alcune fotografie. Si potrebbero associare al genere della “Natura Morta” più classica e in parte ne citano il linguaggio, astraggono però l’ambientazione, che ne è una caratteristica.  Attingendo all’idea, che la fotografia sia un “ready made”, banali oggetti di uso comune sono composti in piccole scene teatrali, cambiando con il punto di vista l’uso e il significato di quanto rappresentato. La mia ricerca da un lato è nata dalla semplice passione per la sensualità delle forme trasformate dalla luce in metafore visive, dall’altro riflette la discontinuità del tempo nella fotografia. Ironizzando sulla certezza del fatto accaduto, il virtuale palcoscenico trasformato in microcosmo della vita ci invita a vivere il paradosso e l’incertezza semantica come valore aggiunto della creatività.

Domanda: Come vi siete avvicinati alla fotografia?

K.P. Tramite e prevalentemente attraverso la lettura. Nello stesso momento anche con il desiderio di osservazione sviluppato nel mio lavoro di giornalista. Ho cominciato a sperimentare il linguaggio del bianco e nero con una vecchia macchina fotografica Pentax acquistata dopo tre mesi di faticoso lavoro come cameriere occasionale durante i miei studi nell’Università di Salonicco negli anni ’80. Il mio cammino verso la fotografia ha attraversato un periodo intenso di studio delle opere dei grandi maestri della fotografia mentre per la Camera Oscura un ruolo decisamente importante hanno giocato le letture e le sperimentazioni del sistema zonale del maestro Ansel Adams e i consigli pratici del mio amico fotografo e stampatore Manfred Eidel nei miei viaggi in Germania.

C.E. Sono cresciuta con la fotografia. Ho passato molto tempo al lavoro con mio papà fotografo, assistendo ai processi di trasformazione dell’immagine oggi digitali, all’epoca ancora manuali, senza tuttavia apprenderne i principi tecnici.   Più tardi mi sono approcciata alla fotografia  con il desiderio di raccontare sviluppato nel mio lavoro di giornalista e attraverso la lettura. La mia formazione visiva non è tuttavia strettamente fotografica, ovvero è stata la fotografia ad insegnarmi a vedere ed appassionarmi all’immagine. Attraverso lo studio delle arti visive ho riscoperto poi il linguaggio della fotografia come mezzo d’espressione. Entrambi per me sono strettamente connessi.

Domanda: In che modo avete appreso la tecnica?

K.P. Fotografando e di nuovo e ripetutamente fotografando… Sbagliando e correggendo passo dopo passo. Osservando la luce e le sue proprietà nel disegnare le forme, i piani e le prospettive. Studiando i lavori dei grandi maestri della fotografia. Comprendendo giorno dopo giorno che – come diceva il grande maestro Mario Giacomelli –  “… nessuna immagine può essere ‘la realtà’, perché la realtà ti capita una volta sola davanti agli occhi.”

C.E. Devo le mie conoscenze di tecnica fotografica a due persone, mio papà e Kostas Papaioannou e alla pratica. Ritengo che la tecnica sia il mezzo imprescindibile, ma un mezzo per l’appunto, senza il quale non possiamo guadagnarci quello spazio infinitamente prezioso, che chiamiamo libera espressione. La creatività è un bene fragile, inaccessibile senza rischi e che non possiamo ne raggiungere, ne conservare, ne tantomeno evolvere, se non accettando, che non vi sono garanzie di riuscita. Ogni crescita è frutto degli errori fatti e dei successivi tentativi.

Domanda: Che ne pensate dell’estetica post-internet, sempre più invasiva?

K.P. Da un lato le nuove tecnologie creano le condizioni di ulteriore progresso, dall’altro pongono nuovi interrogativi riguardo all’uso e all’influenza che esercitano sulla comunicazione umana. Questo dualismo d’altronde è sintomatico per tutte le varie fasi storiche del cammino creativo degli esseri umani verso il loro futuro.

Per quel che riguarda la fotografia, l’internet ha offerto indubbiamente nuovi spazi di interazione e di esposizione delle immagini creando un inedito e affascinante “villaggio globale” di osservazione e confronto. In internet si possono osservare le immagini del mondo in tempi record, da una parte all’altra, spesso senza barriere e impedimenti. Questa è una nuova stupefacente e coinvolgente opportunità che, insieme alle nostre percezioni verso il linguaggio fotografico, ha trasformato e continua a trasformare senza dubbio anche l’estetica oppure come mi piace definirle, “le estetiche” della comunicazione tramite l’immagine.

Nello stesso momento, l’inflazione delle immagini ha creato un mondo virtuale, dove tutto può essere fotografato esasperando il protagonismo e portando l’immagine stessa in secondo piano. Si crea così una “piazzetta” indefinita e spesso mediocre di milioni di foto che paradossalmente si dissolvono con la stessa velocità con la quale appaiono, senza lasciare tracce nella memoria collettiva. Si può dire che tutto si trasforma in foto affinché niente sia più una foto.

L’internet ha offerto maggiori potenzialità e nello stesso momento, ha posto nuovi quesiti che siamo chiamati ad affrontare nella nostra quotidianità. A questa domanda dunque, non si può rispondere in modo unidirezionale. Purtroppo e per nostra fortuna (dipende dai punti di vista degli attori in campo) non esistono facili ricette e comode risposte di fronte alle trasformazioni complesse dei media e dei loro strumenti interattivi.

La luminosità retroilluminata di un monitor di altissima definizione aumenta in modo esponenziale la definizione di una fotografia. Ma oltre la definizione un’immagine è anche sensazione aurea, coinvolgimento e atmosfera, sovrapposizione di fuoco e sfuocato, di piani e di dimensioni…

Quando osserviamo una fotografia i primi segni, le stesure di colore, il nero e bianco, la quantità di materia aumenta, l’informe assume una ricordanza, un contorno che conquista l’occhio, diventa forma, quindi disposizione e infine, in piena luce, ecco la foto che conosciamo. Non esiste un ordine, una gerarchia, tra i vari strati comunicativi, se non nell’occhio di chi guarda. E il problema sta nella formazione estetica di quell’occhio… del nostro occhio.

C.E. Condivido quanto scritto da Kostas. Non è il mezzo in se, ma l’uso che ne facciamo a determinarne rischi e limiti. Ogni mezzo richiede una riflessività, nel caso dell’inflazione delle immagini per esempio la capacità di scelta supportata da una cultura visiva critica e la responsabilità nella loro gestione. Il problema dell’estetica delle immagini in internet, non è dunque una questione di qualità ma di fruizione. Aggiungerei infatti, che se internet ci permette una visione isolata,  più ravvicinata e dunque potenzialmente approfondita delle immagini ad altissimo livello, rimane comunque sempre legata ad una relazione virtuale. Questa virtualità esclude sensazioni tattili ed emozionali, rapporti di comunicazione e scambi sociali legate alla percezioni di immagini in spazi o luoghi al di fuori dello schermo.

Domanda: Avete avuto ispirazione da qualche autore o artista in particolare?

K.P. Mi hanno ispirato tutti i maestri della fotografia. Tutti e ognuno a modo suo e separatamente per quei frammenti di sensibilità che hanno inciso nella mia ‘memoria creativa’.

C.E. Il mio immaginario creativo e visivo non è formato da un solo fotografo, ne tantomeno solo da fotografi. E’ vero tuttavia, che nella scelta di chi potremmo chiamare maestro siamo guidati dalle nostre affinità elettive. Essendo una persona profondamente sensitiva il mio desiderio di raccontare la materialità, ovvero il letterale innamorarsi delle forme, mi porta ad amare la sensualità dei soggetti di Weston trasformati in metafore visive, quanto la mia razionalità e l’approccio concettuale rende per me particolarmente significativi i “Ready Made” di Man Ray, solo per citarne due.

Domanda: Le immagini che avete scattato sono diventate da subito un progetto oppure è stata una riflessione postuma?

K.P. Le mie immagini si sono evolute nel tempo trasformandosi giorno dopo giorno in un progetto aperto e in continua evoluzione. Lo scatto è di per sé un progetto; definisce un luogo, una elaborazione, un intuito, una passione e una specifica visione. Crea i presupposti di una ripresa di un percorso interrotto suggerendo una nuova prospettiva.

C.E. Credo che ogni atto creativo anche fotografico, sia frutto di un rapporto dialettico tra l’immaginario creativo e il contesto dal quale nasce, l’intenzione, la casualità, l’iniziale foglio bianco nel quale tentiamo di riporre quanto visto, immaginato e pensato, l’artefatto creato, il contesto nel quale viene posizionato, la rilettura di quanto creato e la lettura dell’osservatore. La nostra percezione ed espressione non può prescindere a mio parere da una condizione dialettica e dunque da una prospettiva di evoluzione e trasformazione. Ogni nuova lettura di quanto creato determina se non un arricchimento, almeno una variazione del suo originario significato.

La mostra sarà visitabile tutti i giorni: ore 15.30-20.30 presso Hotel Re Testa a Via Beniamino Franklin, 4 a Roma

Barbara Lalle

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