Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, l’articolo ricevuto da James Hansen:
L’umanità conosce i grandi cicli epidemici. Vengono, restano due anni, passano, un
po’ tornano e—lentamente—da epidemici diventano endemici. Con i nostri vaccini stiamo sfidando la
natura e forse questa volta funzionerà. Permarranno comunque i danni sociali ed economici. I cicli
economici moderni imitano la natura. Arrivano, creano ricchezza o povertà, se ne vanno lasciando
macerie. Nel caso attuale pare inevitabile che uno degli esiti sarà la disoccupazione massiccia. Molte
persone non avranno più un lavoro e dunque, per come la società è organizzata, di che vivere.
Il “posto” è, storicamente, un’invenzione abbastanza recente. Nell’antica società contadina e
artigiana—per millenni quella della stragrande maggioranza della gente—gli individui non
vendevano il proprio tempo, vivevano invece direttamente di ciò che producevano. Non era
una vita paradisiaca, e se anche lo fosse stata, non abbiamo modo di tornare indietro.
Negli Stati Uniti—forse l’economia internazionale più avanzata—il Governo distrugge
annualmente, perlopiù bruciandola, una parte della produzione agricola per mantenere i prezzi
a un livello soddisfacente. Le banche, rientrate in possesso delle case pignorate, non di rado le fanno
abbattere di modo che l’eccessiva disponibilità non deprima il mercato. Di beni materiali la società ne ha
a sufficienza, è il meccanismo per distribuirli che è disfunzionale. La scoperta non è nuova, è alla base
delle sperimentazioni infelici dei vari tipi di “socialismo reale”.
Se la distribuzione è legata al “posto”—com’è—allora è lì che bisogna intervenire. Nel 1930 l’economista
inglese John Maynard Keynes stimò che entro il 2030 lo sviluppo tecnologico sarebbe arrivato al punto
che molti avrebbero potuto lavorare solo 15 ore alla settimana. Non è andata così.
L’ecatombe occupazionale che potenzialmente si affaccia ora potrebbe—forse—finalmente imporre la
necessità di dare un senso compiuto al vecchio slogan “lavorare meno, lavorare tutti”, anche perché
questa volta l’impeto pare arrivare dai vertici anziché dalla base. Diverse grandissime aziende—Unilever
e Microsoft tra le ultime—hanno improvvisamente preso a sperimentare la settimana “corta”, trovando
risparmi nella maggiore produttività dei dipendenti—meno logorati—e nei minori costi energetici.
Da tempo gli ecologisti promuovono l’idea della settimana corta per via dei presunti benefici per
l’ambiente derivanti in parte dalla riduzione del pendolarismo. Anche alcuni governi nazionali
cominciano a interessarsene seriamente, citando esplicitamente la necessità di dovere riequilibrare il
mercato del lavoro davanti agli sconquassi economici provocati dall’epidemia Covid.
Già a maggio l’attivo e popolare Primo Ministro neozelandese Jacinda Ardern ha dichiarato che le
aziende nazionali avrebbero dovuto implementare la settimana corta allo scopo di migliorare la
produttività e la qualità di vita dei dipendenti, favorendo anche—con più tempo libero—la crescita del
turismo domestico per sopperire al collasso di quello internazionale. Ha fatto notare en passant che
avrebbe potuto, a necessità, ottenere lo stesso risultato dichiarando molte nuove feste legali…
Keynes pensava che sarebbero bastati cent’anni per digerire la rivoluzione tecnologica e arrivare al
futuro. Forse non era un secolo che ci voleva, ma un’epidemia.